da L’oro di Napoli – Giuseppe Marotta
La mostra
Natale, a Napoli, è la più lunga festa dell’anno: comincia fin dagli ultimi giorni di novembre, forse col primo sbattere di un’imposta aggredita dal vento di terra, quando alla madida luna delle notti di scirocco subentra improvvisamente quel gelo pulito e fermo, di cristallo, che denuda gli astri e le montagne, non senza far dire al fruttivendolo don Aniello Scala: «Ci siamo, Concerta, prepara i lumi e il braciere». Come è precisa e sincera Napoli in quella atmosfera da presepe, come è naturale, come è nel giusto punto tra felicità e mestizia. Il netto rilievo degli edifici che rotolano in disordine dalle colline determinando tali alterazioni di prospettiva che una villetta sembra portare sulle spalle un palazzo. Il sonno dei giardini, fra muro e muro; l’acqua nelle vasche lucida e innocente come la sclerotica dei neonati. Le rampe i gradoni i fondaci che si delineano minuziosamente, spigolo per spigolo, come un lavoro di intagli appena smerigliato.
Si ha, davanti a tutto questo, l’incerto stato d’animo e la vaga ansia di chi, chiamato al telefono da una città lontanissima, aspetta di conoscere una notizia che potrà rallegrarlo o affliggerlo; invece è soltanto cominciato Natale, nient’altro può verificarsi, il fatto nuovo consiste per don Aniello Scala nell’allestire (previa lucidatura dei lumi e del braciere) la mostra natalizia della sua frutta; allo stesso modo che per qualsiasi altro abitante del vicolo l’appassionante interrogativo è: come se la caverà quest’insigne fruttivendolo?
Sono tentato di credere che il mio don Aniello ci pensasse per tutto l’anno alla sua mostra. Rannuvolatosi e spentosi l’oro di ottobre, la ruga che incrinava la sua altissima fronte si approfondiva, scacciandone i grigi capelli; oserei dire che sanguinava, forse non era che la cicatrice della precedente mostra natalizia, quella ruga; Don Aniello impigriva sulla soglia della vecchiaia e della morte, vi si era seduto e vi prendeva il fresco, cioè non saprei in quale altro modo informarvi che era tisìco fin da quando, trent’anni prima, lo avevano dispensato dal servizio militare: per impedire che le ferree dita del morbo lo strozzassero nel sonno, egli soleva alzarsi alle tre del mattino e passeggiare canticchiando nel vicolo finché il sole spuntava per rassicurarlo. Nel 1912 don Aniello aveva anche agonizzato; arrivarono i Sacramenti, al suono del campanello d’argento che faceva stramazzare in ginocchio le beghine come davanti alla mannaia; ma egli dichiarò che non c’era fretta e chiese fagiolini al pomodoro: una minestra fuori stagione, una voglia. Qualche mese dopo sposò la giovane Concetta Abbate; insieme si recarono dal celebre tisiologo Cardarelli, che interessatosi al fenomeno definì irrisoria la superficie tuttora efficiente dell’unico polmone sul quale potesse contare don Aniello. «Sarà piccolo, ma è faticatore» osservò l’indomito fruttivendolo, accettando quella diagnosi come un elogio e senza chiedere altro alla scienza. Il tempo ricominciò a passare, la stagione delle mele rosse apoplettiche, da lucidarsi con la manica, dietro quella dei fichi biondi striati di bianco, adulti e sensuali, da esporsi in simmetriche piramidi ed evocanti merende sull’erba dei Camaldoli, i cartocci di tumido prosciutto spalancati al sole. Col filo di respiro che Dio gli elargiva don Aniello baciava la sua bella moglie per curarsi l’insonnia e quando aveva finito usciva a canticchiare nel vicolo, pensando (ne son certo) alla mostra di Natale; d’altro non si compose quest’uomo se consideriamo che di anno in anno ben quattro creaturine gli morirono regolarmente nel mese delle albicocche e si vuole ammettere che la sua mostra natalizia di frutta non fu mai superata, per sontuosità e stile, in tutta Napoli.
La mostra
Natale, a Napoli, è la più lunga festa dell’anno: comincia fin dagli ultimi giorni di novembre, forse col primo sbattere di un’imposta aggredita dal vento di terra, quando alla madida luna delle notti di scirocco subentra improvvisamente quel gelo pulito e fermo, di cristallo, che denuda gli astri e le montagne, non senza far dire al fruttivendolo don Aniello Scala: «Ci siamo, Concerta, prepara i lumi e il braciere». Come è precisa e sincera Napoli in quella atmosfera da presepe, come è naturale, come è nel giusto punto tra felicità e mestizia. Il netto rilievo degli edifici che rotolano in disordine dalle colline determinando tali alterazioni di prospettiva che una villetta sembra portare sulle spalle un palazzo. Il sonno dei giardini, fra muro e muro; l’acqua nelle vasche lucida e innocente come la sclerotica dei neonati. Le rampe i gradoni i fondaci che si delineano minuziosamente, spigolo per spigolo, come un lavoro di intagli appena smerigliato.
Si ha, davanti a tutto questo, l’incerto stato d’animo e la vaga ansia di chi, chiamato al telefono da una città lontanissima, aspetta di conoscere una notizia che potrà rallegrarlo o affliggerlo; invece è soltanto cominciato Natale, nient’altro può verificarsi, il fatto nuovo consiste per don Aniello Scala nell’allestire (previa lucidatura dei lumi e del braciere) la mostra natalizia della sua frutta; allo stesso modo che per qualsiasi altro abitante del vicolo l’appassionante interrogativo è: come se la caverà quest’insigne fruttivendolo?
Sono tentato di credere che il mio don Aniello ci pensasse per tutto l’anno alla sua mostra. Rannuvolatosi e spentosi l’oro di ottobre, la ruga che incrinava la sua altissima fronte si approfondiva, scacciandone i grigi capelli; oserei dire che sanguinava, forse non era che la cicatrice della precedente mostra natalizia, quella ruga; Don Aniello impigriva sulla soglia della vecchiaia e della morte, vi si era seduto e vi prendeva il fresco, cioè non saprei in quale altro modo informarvi che era tisìco fin da quando, trent’anni prima, lo avevano dispensato dal servizio militare: per impedire che le ferree dita del morbo lo strozzassero nel sonno, egli soleva alzarsi alle tre del mattino e passeggiare canticchiando nel vicolo finché il sole spuntava per rassicurarlo. Nel 1912 don Aniello aveva anche agonizzato; arrivarono i Sacramenti, al suono del campanello d’argento che faceva stramazzare in ginocchio le beghine come davanti alla mannaia; ma egli dichiarò che non c’era fretta e chiese fagiolini al pomodoro: una minestra fuori stagione, una voglia. Qualche mese dopo sposò la giovane Concetta Abbate; insieme si recarono dal celebre tisiologo Cardarelli, che interessatosi al fenomeno definì irrisoria la superficie tuttora efficiente dell’unico polmone sul quale potesse contare don Aniello. «Sarà piccolo, ma è faticatore» osservò l’indomito fruttivendolo, accettando quella diagnosi come un elogio e senza chiedere altro alla scienza. Il tempo ricominciò a passare, la stagione delle mele rosse apoplettiche, da lucidarsi con la manica, dietro quella dei fichi biondi striati di bianco, adulti e sensuali, da esporsi in simmetriche piramidi ed evocanti merende sull’erba dei Camaldoli, i cartocci di tumido prosciutto spalancati al sole. Col filo di respiro che Dio gli elargiva don Aniello baciava la sua bella moglie per curarsi l’insonnia e quando aveva finito usciva a canticchiare nel vicolo, pensando (ne son certo) alla mostra di Natale; d’altro non si compose quest’uomo se consideriamo che di anno in anno ben quattro creaturine gli morirono regolarmente nel mese delle albicocche e si vuole ammettere che la sua mostra natalizia di frutta non fu mai superata, per sontuosità e stile, in tutta Napoli.
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