da Paolo il caldo - Vitaliano Brancati
Paolo sentì la voce dello sconosciuto chiamare: «Teresa!» con quel tono
malinconico e ostile dal quale non riusciamo a tirar fuori i nomi delle
persone care, una volta che li abbiamo usati nei gridi delle liti e nei
lamentosi intercalari dei discorsi sulle difficoltà economiche,
«Teresa!».
Superando un suono di trombetta che tagliava in due, con un’immagine dalle gote gonfie, lo spazio in cui si rimescolavano le voci e i rumori all’altro capo del filo, una donna arrivò ciabattando.
«Chi è che parla?».
«Lei non mi conosce. Ho letto l’annuncio sul Messaggero».
«Ah, vuole la sarta?».
«Si».
«Per quando?».
«… per subito».
La donna andò a suscitare un tonfo di porta, dopo il quale le voci e i
suoni, compreso quello della trombetta, come fiamme di candele a una
folata di vento, si spensero; e tornò all’apparecchio ridendo: «Cos’ha
di così urgente da far rammendare?», disse piano piano…
Da uno
squarcio del tessuto dell’immemoria, sbucando improvviso ed agile, segno
che gli era bastato un solo passo per lo spazio di tempo che in altri
punti della mente era segnato con tutti i giorni e le ore dei
venticinque anni trascorsi, un desiderio malamente appagato, e sepolto
ancora vivo nel 1922, gli si diramò per tutti i nervi. Che sapore di
giovinezza sprigionava questa vecchia capsula che gli si apriva e
scioglieva nel sangue! Ebbe l’impressione che udito, vista, odorato gli
si sturassero brutalmente, ricevendo in pieno la potenza intima delle
cose cui aveva insensibilmente affievolito e velato il sudiciume di
migliaia e migliaia di digestioni e fatiche.
«Cos’ha di così urgente da far rammendare?».
Egli tacque, suggerendo col suo coercitivo silenzio, la frase che aveva tanto aspettato dalla pantalonaia del 1922.
«È solo in casa?», fece la donna.
«Sì».
«Non ci ha la moglie?».
«No».
«E allora, poveretto, ha ragione… Chi può attaccarglieli i bottoni?».
«In verità ho bisogno della cosa opposta».
La donna si mise a ridere: «La cosa opposta? E che l’è la cosa opposta?».
«Ho bisogno che lei me ne scucia alcuni».
«Io? Io no… La sarta so’ mica io. È la mia amica che abita qui».
Un gelo per tutto il cuore di Paolo: «E non c’è la sua amica?».
«No, è uscita. Torna fra un’ora. ma veramente se si tratta di scucire
un bottone, può farlo da sé. Non c’è mica bisogno della sarta!».
Il cuore tornò a scaldarsi: «Sono parecchi bottoni… cuciti in modo maldestro… Non vorrei che si sgualcisse il vestito».
«Chiami la portinaia», consigliò la donna, «non ce l’ha la portinaia?».
«In questo momento… è fuori», disse Paolo, inghiottendo amaro.
«Oh, ma allora la sua casa è proprio che non ci abita nessuno… solo lei…».
«Perché», azzardò Paolo, mentre sentiva tutta la sua sensualità
dilagare fin dentro il tavolo, cui aveva poggiato il petto
comunicandogli il battito del cuore, «Perché non viene lei?».
«Io?», la donna scoppiò a ridere, «ma io non sono sarta».
«La pagherò bene», fece Paolo.
«Teresa, io esco», gridò dal fondo, la solita voce maschile.
Seguì un silenzio durante il quale Paolo, con quell’intelligenza
volitiva che non si sa se capisca o determini i fatti che vuole capire,
percepì che l’uscita del marito e la frase: «la pagherò bene»
travagliavano la donna a suo favore. Che interminabile silenzio! Quel
suo desiderio, che aveva aspettato venticinque anni, fremeva ora con
tutto l’impeto della sua intatta giovinezza dentro la mente invecchiata,
tirandola da ogni parte e scompigliandola, come un corsiero ancora
indomito in un tiro a quattro di vecchi ronzini.
«E quanto mi darebbe?».
«Cinquemila lire… Diecimila».
«Ma sa… io veramente… ». E poi con impeto: «Non scherza?».
«Scherzare?», fece lui sbattendo le palpebre sugli occhi gonfi, col
tono dolente di un ferito che, avendo chiesto un sorso d’acqua a una
ragazza che reca la borraccia piena, si è sentito rispondere: «Non lo
dice per ischerzo?».
«Perché dovrei scherzare?».
«e me le dà poi, veramente, le diecimila lire?».
«Glielo giuro!... Mi creda!».
«E qual è il suo indirizzo?».
Paolo glielo scandì.
«Come abita lontano!... Mi dà il suo numero di telefono?».
Con un sospiro Paolo dettò il numero del telefono.
«Bene, adesso la richiamo per vedere se non è uno scherzo. E poi vengo da lei».
«Quando pensa che arriverà?».
«Fra un’ora».
«Un’ora?», esclamò Paolo. «Io devo uscire subito. Prenda un tassì, la prego».
«E me lo paga a parte?».
«A parte, sì».
«Va bene», fece la donna, e poi abbassando la voce: «Prendo un tassì e vengo. Chiuda, la richiamo».
Paolo chiuse l’apparecchio e si serrò le tempie in cui le arterie non
sembravano più portare il sangue, ma succhiarlo gonfiandosene come
vermi.
Squillò il telefono.
«Pronto!», fece egli.
Dall’altra parte si sentì un respiro pesante, un’angoscia che impediva la parola.
«Pronto!», ripeté Paolo.
«È lei», disse, con stento, una voce d’uomo, «il signor Paolo Castorini?»
«Sono io».
«Farabutto!».
«Chi diavolo è? chi parla?».
«Lei è un farabutto!».
«E tu sei un cornuto!», gridò egli esasperato. «Vigliacco, dimmi il tuo nome che ti rompo il …!».
«Non ti scalmanare! Te lo dico subito: ingegnere Lorenzo Banchedi».
(Era il marito di Beatrice).
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