Pippo Rizzo - città futurista, 1929
da L’indovino – Pandelis Bukalas
Molte profezie mi recarono gli uccelli. Loro cinguettavano oppure
cominciavano a parlare con voce umana quando dentro di loro maturava la
morte, e il mio straordinario udito carpiva la parola del futuro. E così
non avevo spesso bisogno come gli altri artigiani del vaticinio che
anelavano a conoscere il presente, il futuro e il passato, di studiare i
segni divini, il volo degli uccelli, il
tempestivo fragore del tuono, il libero volteggiare del fumo che con
gioia sacrifica le forme di vento che compone, le profondità dei sogni
fittamente abitate, la sanguigna geografia dei visceri, lo sgorgare
della acque che portano in superficie i segreti sotterranei. Lingua
sacra, questa, che penetra per un poco l’enigma della volontà divina per
rubare l’inafferrabile segreto, ed esce sempre con fame insaziata;
sacra lei che anela all’impenetrabile e articola il fatale, lei che
estorce il non accaduto e svela la perduta interpretazione di ciò che si
è compiuto. Ma più sacra, anche se la mia anima e la mia arte non
concordano, la lingua che pone l’uomo di fronte alla sua sorte, non suo
schiavo o zimbello, la lingua che s’innamora e guizzanti sull’altrui
palato sillaba astri infuocati, la lingua che parla il tangibile e ciò
che si rallegra della sua esistenza nella luce, ciò che trasmette, ciò
che offre i sentimenti, e non l’inevitabile senso che si è compiuto
altrove e si impone asfittico. Ma devo ritornare alla mia arte, che non
mi cancelli anche la seconda vista il piacere di combattere gli dèi
perfino per i loro doni.
Traduzione di Massimo Cazzulo
Da “Poesia” n. 298, novembre 2014. Crocetti Editore
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