Memorie di Adriano - Marguerite Yourcenar
Roma non è più Roma: dovrà riconoscersi nella metà del mondo o perire. I tetti, le terrazze, gli isolati che il sole al tramonto colora di rosa e d'oro non sono più, come al tempo dei re, timorosamente circondati di mura: queste, le ho ricostruite in gran parte io stesso lungo le foreste della Germania, nelle lande della Britannia. Tutte le volte che, alla svolta d'una strada assolata, ho levato lo sguardo da lunge su un'acropoli greca, sulla sua città, perfetta come un fiore, unita alla sua collina come il calice allo stelo, ho sentito che quella pianta incomparabile trovava un limite nella sua stessa perfezione, raggiunta in un dato punto dello spazio, in una definita frazione di tempo. Come quella delle piante, l'unica sua possibilità di espandersi consiste nel seme: quel germe di idee mediante le quali la Grecia ha fecondato il mondo. Ma Roma, più opulenta, più informe, adagiata senza contorni netti lungo il suo fiume, nella sua pianura, si disponeva verso sviluppi più vasti: la città è divenuta lo Stato. Avrei voluto che lo Stato si ampliasse ancora, divenisse ordine del mondo, ordine delle cose. Le virtù che erano sufficienti per la piccola città dai sette colli avrebbero dovuto farsi duttili, varie, per adeguarsi a tutta la terra. Roma, che io per primo osai qualificare eterna, si sarebbe assimilata sempre più alle dee madri dei culti dell'Asia: progenitrice di giovinetti e di messi, con leoni e alveari stretti al seno. Ma qualsiasi creazione umana che pretenda all'eternità è costretta a adattarsi al ritmo mutevole dei grandi eventi della natura, conformarsi al mutare degli astri.
La nostra Roma non è ormai più la borgata pastorale dei tempi di Evandro, culla d'un avvenire che in parte è già passato; la Roma predatrice della Repubblica ha già svolto la sua funzione, la folle capitale dei primi Cesari tende già a rinsavire da sé; altre Rome verranno e io non so immaginarne il volto; ma avrò contribuito a formarlo. Quando visitavo le città antiche, città sacre, ma morte, senza alcun valore attuale per la razza umana, mi ripromettevo di evitare alla mia Roma quel destino pietrificato d'una Tebe, d'una Babilonia, d'una Tiro. Roma sarebbe sfuggita al suo corpo di pietra, e come Stato, come cittadinanza, come Repubblica si sarebbe composta un'immortalità più sicura. Nei paesi ancora barbari, in riva al Reno e al Danubio, sulle sponde del Mare dei Batavi, ogni villaggio difeso da una palizzata di legno mi ricordava la capanna di canne, il mucchio di strame dove dormirono i nostri gemelli sazi del latte della lupa: quelle metropoli future riprodurranno Roma. All'entità fisica delle nazioni e delle razze, agli accidenti della geografia e della storia, alle esigenze disparate degli déi e degli avi, noi avremmo sovrapposto per sempre, pur senza nulla distruggere, l'unità d'una condotta umana, l'empirismo d'una saggia esperienza. Nella più piccola città, ovunque vi siano magistrati intenti a verificare i pesi dei mercanti, a spazzare e illuminare le strade, a opporsi all'anarchia, all'incuria, alle ingiustizie, alla paura, a interpretare le leggi al lume della ragione, lì Roma vivrà. Roma non perirà che con l'ultima città degli uomini.
"Humanitas, Felicitas, Libertas": queste belle parole incise sulle monete del mio regno, non le ho inventate io. Qualsiasi filosofo greco, qualsiasi romano colto si propone del mondo la stessa immagine che mi propongo io. Ho sentito Traiano, esso di fronte a una legge ingiusta perché troppo rigorosa, protestare che la sua applicazione non rispondeva più allo spirito dei tempi. Ma, a questo spirito dei tempi, forse sarò stato io il primo a subordinare coscientemente tutte le mie azioni, a farne qualcosa di diverso dai sogni nebulosi del filosofo, dalle aspirazioni vaghe del buon principe. E ringraziavo gli déi per avermi concesso di vivere in un'epoca, in cui il compito che m'era toccato in sorte consisteva nel riorganizzare prudentemente un mondo già vivo, e non nell'estrarre dal caos una materia ancora tendermi su di un cadavere per cercar di risuscitarlo. Mi rallegravo che il nostro passato fosse antico abbastanza per fornirci esempi eccellenti, e non tanto pesante da schiacciarci con essi; che lo sviluppo della nostra tecnica fosse pervenuto al punto da facilitare l'igiene delle città e la prosperità dei popoli, ma non a quell'eccesso in cui rischierebbe di sommergere l'uomo con acquisizioni inutili; che le nostre arti, alberi un poco esausti per la gran copia dei loro doni, fossero ancora capaci di qualche frutto squisito. Mi rallegravo che le nostre religioni vaghe e venerabili, purificate da intransigenze e da riti feroci, ci associassero misteriosamente ai sogni più antichi dell'uomo e della terra, ma senza inibirci una spiegazione «laica» dei fatti, un'intuizione razionale della condotta umana. Mi piaceva infine che queste stesse parole, Umanità, Felicità, Libertà non fossero ancora avvilite da tante applicazioni ridicole.
Roma non è più Roma: dovrà riconoscersi nella metà del mondo o perire. I tetti, le terrazze, gli isolati che il sole al tramonto colora di rosa e d'oro non sono più, come al tempo dei re, timorosamente circondati di mura: queste, le ho ricostruite in gran parte io stesso lungo le foreste della Germania, nelle lande della Britannia. Tutte le volte che, alla svolta d'una strada assolata, ho levato lo sguardo da lunge su un'acropoli greca, sulla sua città, perfetta come un fiore, unita alla sua collina come il calice allo stelo, ho sentito che quella pianta incomparabile trovava un limite nella sua stessa perfezione, raggiunta in un dato punto dello spazio, in una definita frazione di tempo. Come quella delle piante, l'unica sua possibilità di espandersi consiste nel seme: quel germe di idee mediante le quali la Grecia ha fecondato il mondo. Ma Roma, più opulenta, più informe, adagiata senza contorni netti lungo il suo fiume, nella sua pianura, si disponeva verso sviluppi più vasti: la città è divenuta lo Stato. Avrei voluto che lo Stato si ampliasse ancora, divenisse ordine del mondo, ordine delle cose. Le virtù che erano sufficienti per la piccola città dai sette colli avrebbero dovuto farsi duttili, varie, per adeguarsi a tutta la terra. Roma, che io per primo osai qualificare eterna, si sarebbe assimilata sempre più alle dee madri dei culti dell'Asia: progenitrice di giovinetti e di messi, con leoni e alveari stretti al seno. Ma qualsiasi creazione umana che pretenda all'eternità è costretta a adattarsi al ritmo mutevole dei grandi eventi della natura, conformarsi al mutare degli astri.
La nostra Roma non è ormai più la borgata pastorale dei tempi di Evandro, culla d'un avvenire che in parte è già passato; la Roma predatrice della Repubblica ha già svolto la sua funzione, la folle capitale dei primi Cesari tende già a rinsavire da sé; altre Rome verranno e io non so immaginarne il volto; ma avrò contribuito a formarlo. Quando visitavo le città antiche, città sacre, ma morte, senza alcun valore attuale per la razza umana, mi ripromettevo di evitare alla mia Roma quel destino pietrificato d'una Tebe, d'una Babilonia, d'una Tiro. Roma sarebbe sfuggita al suo corpo di pietra, e come Stato, come cittadinanza, come Repubblica si sarebbe composta un'immortalità più sicura. Nei paesi ancora barbari, in riva al Reno e al Danubio, sulle sponde del Mare dei Batavi, ogni villaggio difeso da una palizzata di legno mi ricordava la capanna di canne, il mucchio di strame dove dormirono i nostri gemelli sazi del latte della lupa: quelle metropoli future riprodurranno Roma. All'entità fisica delle nazioni e delle razze, agli accidenti della geografia e della storia, alle esigenze disparate degli déi e degli avi, noi avremmo sovrapposto per sempre, pur senza nulla distruggere, l'unità d'una condotta umana, l'empirismo d'una saggia esperienza. Nella più piccola città, ovunque vi siano magistrati intenti a verificare i pesi dei mercanti, a spazzare e illuminare le strade, a opporsi all'anarchia, all'incuria, alle ingiustizie, alla paura, a interpretare le leggi al lume della ragione, lì Roma vivrà. Roma non perirà che con l'ultima città degli uomini.
"Humanitas, Felicitas, Libertas": queste belle parole incise sulle monete del mio regno, non le ho inventate io. Qualsiasi filosofo greco, qualsiasi romano colto si propone del mondo la stessa immagine che mi propongo io. Ho sentito Traiano, esso di fronte a una legge ingiusta perché troppo rigorosa, protestare che la sua applicazione non rispondeva più allo spirito dei tempi. Ma, a questo spirito dei tempi, forse sarò stato io il primo a subordinare coscientemente tutte le mie azioni, a farne qualcosa di diverso dai sogni nebulosi del filosofo, dalle aspirazioni vaghe del buon principe. E ringraziavo gli déi per avermi concesso di vivere in un'epoca, in cui il compito che m'era toccato in sorte consisteva nel riorganizzare prudentemente un mondo già vivo, e non nell'estrarre dal caos una materia ancora tendermi su di un cadavere per cercar di risuscitarlo. Mi rallegravo che il nostro passato fosse antico abbastanza per fornirci esempi eccellenti, e non tanto pesante da schiacciarci con essi; che lo sviluppo della nostra tecnica fosse pervenuto al punto da facilitare l'igiene delle città e la prosperità dei popoli, ma non a quell'eccesso in cui rischierebbe di sommergere l'uomo con acquisizioni inutili; che le nostre arti, alberi un poco esausti per la gran copia dei loro doni, fossero ancora capaci di qualche frutto squisito. Mi rallegravo che le nostre religioni vaghe e venerabili, purificate da intransigenze e da riti feroci, ci associassero misteriosamente ai sogni più antichi dell'uomo e della terra, ma senza inibirci una spiegazione «laica» dei fatti, un'intuizione razionale della condotta umana. Mi piaceva infine che queste stesse parole, Umanità, Felicità, Libertà non fossero ancora avvilite da tante applicazioni ridicole.
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