15 luglio 2019

da Manhattan transfer - John Dos Passos

da Manhattan transfer - John Dos Passos

Ellen sedeva accanto al padre, su una panca a Battery Park. Si guardava gli stivaletti nuovi, gialli, a bottoni. Un raggio di sole giocava sulle punte e sui bottoncini tondi, quando dondolava il piede fuori dall’ombra della sua veste.
«Pensa un po’», diceva Ed Thatcher, «fare una traversata su uno di quei grandi piroscafi. Pensa, attraversare il grande Atlantico in sette giorni».
«Ma papà, che fa la gente tutta la giornata sopra un battello?»
«Non so… Passeggerà sul ponte, giocherà a carte, leggerà… e altre cose simili! E poi si balla».
«Si balla, sopra un battello? Credevo non si potesse nemmeno star fermi!» rise Ellen.
«Sui grandi transatlantici moderni si balla».
«Perché non partiamo, papà?»
«Chissà che non partiamo, un giorno, se metterò da parte abbastanza denaro».
«Oh, papà, metti presto molto denaro da parte! I genitori di Alice Vaughan passano sempre l’estate nelle White Mountains, ma quest’anno andranno in Europa».
Ed Thatcher guardò la baia, che si stendeva azzurrognola sino alla foschia verso i Narrows. La statua della Libertà s’innalzava, incerta come una sonnambula, tra le volute di fumo dei rimorchiatori, gli alberi delle golette e le pesanti masse lignee delle chiatte cariche di mattoni e sabbia. Qua e là il sole fulgido imbiancava ora una vela, ora la superstruttura di un piroscafo. Dei ferry boat rossi facevano la spola.
«Papà, perché non siamo ricchi?»
«C’è tanta gente più povera di noi, Ellen… Tu non vorresti più bene al tuo papà, se fosse ricco, vero?»
«Oh, sì che gliene vorrei di più!» Ed Thatcher rise. «Mah… Chissà che non succeda, un giorno o l’altro… Cosa ne diresti della ditta Edward C. Thatcher e Co.
Periti contabili?» Ellen si mise a saltare. «Guarda guarda, che grosso battello!
Su uno così mi piacerebbe partire!»
«Quello è l’Harabic», gracchiò, vicino a loro, una voce dall’accento londinese.
«Davvero?» disse Thatcher.
«Sì, signore; non c’è un piroscafo più bello di quello lì, signore», rispose, convinto, un individuo bisunto dalla voce di cornacchia, che sedeva sulla panca vicina alla loro. La visiera rotta d’un berretto ombreggiava una faccia aguzza che esalava un vago odore di whisky.
«Sì, signore, l’Harabic».
«Ha davvero l’aria di un buon piroscafo».
«È uno dei più grandi che ci siano, signore. Ci ho navigato sopra più d’una volta e sul Majestic e anche sul Teutonic, signore, bei piroscafi tutti e due, benché un po’ leggeri di prua. Ho lavorato come Stewart sulla Hintnan e sulla White Star per trent’anni e ora che sono vecchio mi hanno buttato a mare».
«Eh, tutti quanti abbiamo i nostri guai».
«Ma c’è chi non finisce mai di averne, signore… Sarei un uomo felice, signore, se potessi tornarmene al mio Paese. Questo qui non è Paese per i vecchi; è buono per i giovani, per i forti, per la gente in gamba, ecco».
E stese verso la baia, indicando la statua della Libertà, una mano deformata dall’artrite.
«Guardate, è voltata verso l’Inghilterra».
«Papà, andiamo via. Ho paura di quell’uomo», bisbigliò tremante Ellen all’orecchio del padre.
«Ora andiamo a vedere le foche… Buongiorno».
«Non mi potreste regalare tanto da prendere una tazza di caffè, signore? Mi sento proprio a terra».
Thatcher mise una moneta nella sudicia mano nodosa.
«Ma papà, mammina diceva che non sta bene dar retta alla gente che ci parla per strada, e che bisognava chiamare la guardia e scappare via il più presto possibile per via di quei cattivi ladri di bambini».
«Non c’è d’aver paura dei ladri con me, Ellie. Succede soltanto alle bambine».
«E quando sarò grande, potrò parlare anch’io così con la gente per strada?»
«No, cara, assolutamente».
«E se fossi un ragazzo, potrei?»
«Certo».
Sostarono un momento dinanzi all’Acquario, a guardare la baia. Il transatlantico, spinto ai due lati della prora dai rimorchiatori sbuffanti fumo bianco, di fronte a loro dominava i ferry boat e le imbarcazioni del porto. I gabbiani svolazzavano con strida acute. Il sole spandeva un chiarore latteo sui ponti superiori e sulla grande ciminiera gialla coronata di nero. L’albero maestro era pavesato di bandierine gaiamente fluttuanti sul cielo d’ardesia.
«C’è tanta gente che arriva dall’Europa su quel piroscafo, vero, papà?»
«Guarda, si vedono… I ponti formicolano di gente».
Bud Korpenning, seguendo la Cinquantatreesima Strada, dall’East River, si trovò vicino a un mucchio di carbone sul marciapiede.
Dall’altra parte, una donna con i capelli grigi lo guardava: aveva una camiciola di merletto a balze ed un grosso cammeo rosa sul seno prosperoso; e osservava il mento mal rasato di lui e i polsi che uscivano rossi dalle maniche sbrindellate della giacchetta. Si sorprese a chiederle: «Non potrei portarvi dentro tutto questo carbone, signora?» E Bud si dondolava da un piede all’altro.
«Sì, sì, ecco una cosa da farsi», disse la donna, con voce fessa.
«Quel maledetto carbonaio ha lasciato il mucchio stamane ed ha detto che sarebbe tornato per portarlo dentro. Avrà preso una sbornia, come tutti quelli della sua razza. Chissà se mi posso fidare a farvi entrare in casa…»
«Vengo dagli Stati del Nord, signora…» balbettò Bud.
«Da dove?»
«Da Cooperstown».
«Mmh… Io sono di Buffalo. Questa qui è proprio la città dove tutti vengono da fuori… Immagino che farete parte di qualche banda di scassinatori, ma che farci? Bisogna ben portare dentro il carbone… Entrate; vi darò una pala e una cesta, e se state attento a non farne cadere nel corridoio od in cucina… la donna delle pulizie se n’è andata proprio ora… già, il carbone deve sempre arrivare quando si è pulito il pavimento… vi darò un dollaro».

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