dipinto di Carl Vilhelm Holsøe
da Il libro dell’inquietudine – Fernando Pessoa
120. L’idea di viaggiare mi nausea. Ormai ho visto tutto ciò che non avevo mai visto. Ormai ho visto tutto ciò che non ho ancora visto. Il tedio del costantemente nuovo, il tedio di scoprire, sotto la falsa differenza delle cose e delle idee, la perpetua identità del tutto, la somiglianza assoluta fra la moschea, il tempio e la chiesa, l’uguaglianza della capanna al castello, lo stesso corpo strutturale nell’essere un re vestito e un selvaggio nudo, l’eterna concordanza della vita con se stessa, la stagnazione di tutto quello che vivo si sta verificando, solo per il fatto di muoversi. I paesaggi sono ripetizioni. In un semplice viaggio in treno mi divido inutilmente e con una certa angustia, fra la disattenzione verso il paesaggio e la disattenzione al libro con cui passerei il tempo se fossi un altro. Ho una nausea vaga della vita e il movimento me la accentua. Il tedio non esiste solo nei paesaggi inesistenti, nei libri che non leggerò mai. La vita per me è una sonnolenza che non arriva al cervello. Questo io lo mantengo libero, perché in esso possa sentirmi triste. Ah, viaggino coloro che non esistono! Per chi non è niente, scorrere, come un fiume, deve essere la vita. Ma coloro che pensano e sentono, quelli che sono desti, l’orribile isteria dei treni, delle automobili, delle navi, non li fa né dormire né svegliare. Da qualsiasi viaggio, anche breve, ritorno come da un sonno pieno di sogni – una torpida confusione, con le sensazioni incollate le une alle altre, ubriaco di quanto ho visto. Per il riposo mi manca la salute dell’anima. Per il movimento mi manca qualcosa che si trova fra l’anima e il corpo; mi si negano, non i movimenti, ma il desiderio di averli. Molte volte mi è capitato di voler attraversare il fiume, questi dieci minuti dal Terriero do Paço a Cacilhas. E ho avuto quasi sempre una sorta di timidezza con le persone, con me stesso e con il mio proposito. Qualche volta ci sono andato, sempre oppresso, posando sempre il piede in terra solo al ritorno. Quando si sente troppo, il Tago è l’Atlantico immenso, e Cacilhas un altro continente, o persino un altro universo.
120. L’idea di viaggiare mi nausea. Ormai ho visto tutto ciò che non avevo mai visto. Ormai ho visto tutto ciò che non ho ancora visto. Il tedio del costantemente nuovo, il tedio di scoprire, sotto la falsa differenza delle cose e delle idee, la perpetua identità del tutto, la somiglianza assoluta fra la moschea, il tempio e la chiesa, l’uguaglianza della capanna al castello, lo stesso corpo strutturale nell’essere un re vestito e un selvaggio nudo, l’eterna concordanza della vita con se stessa, la stagnazione di tutto quello che vivo si sta verificando, solo per il fatto di muoversi. I paesaggi sono ripetizioni. In un semplice viaggio in treno mi divido inutilmente e con una certa angustia, fra la disattenzione verso il paesaggio e la disattenzione al libro con cui passerei il tempo se fossi un altro. Ho una nausea vaga della vita e il movimento me la accentua. Il tedio non esiste solo nei paesaggi inesistenti, nei libri che non leggerò mai. La vita per me è una sonnolenza che non arriva al cervello. Questo io lo mantengo libero, perché in esso possa sentirmi triste. Ah, viaggino coloro che non esistono! Per chi non è niente, scorrere, come un fiume, deve essere la vita. Ma coloro che pensano e sentono, quelli che sono desti, l’orribile isteria dei treni, delle automobili, delle navi, non li fa né dormire né svegliare. Da qualsiasi viaggio, anche breve, ritorno come da un sonno pieno di sogni – una torpida confusione, con le sensazioni incollate le une alle altre, ubriaco di quanto ho visto. Per il riposo mi manca la salute dell’anima. Per il movimento mi manca qualcosa che si trova fra l’anima e il corpo; mi si negano, non i movimenti, ma il desiderio di averli. Molte volte mi è capitato di voler attraversare il fiume, questi dieci minuti dal Terriero do Paço a Cacilhas. E ho avuto quasi sempre una sorta di timidezza con le persone, con me stesso e con il mio proposito. Qualche volta ci sono andato, sempre oppresso, posando sempre il piede in terra solo al ritorno. Quando si sente troppo, il Tago è l’Atlantico immenso, e Cacilhas un altro continente, o persino un altro universo.
Nessun commento:
Posta un commento