da La forza del passato – Sandro Veronesi
- La borsa – dice l’uomo – ti ho riportato la borsa.
Io sono ancora paralizzato. È strana, come sensazione: vedo tutto, percepisco tutto (anzi, la mia impressione è che in questo stato si percepiscano molte più cose), ma non riesco a muovermi di un millimetro né a emettere un suono, ogni singolo impulso che lancio va a vuoto, e sto malissimo. Non posso dire che sia una sensazione nuova, poiché è più o meno quella che si prova negli incubi, ma da svegli è tutta un’altra cosa. A malapena riesco a dirigere gli occhi verso le mani dell’uomo, che in effetti stringono i manici della mia borsa da viaggio di cuoio marrone: è proprio lei, quella lasciata nel fuoristrada, con dentro computer e tutto.
- Tieni – fa lui, e me la porge.
La segreteria ha finito di registrare, e lancia il suo tu-tu di fine messaggio. L’uomo sorride, la borsa a mezz’aria, offerta in un gesto quasi votivo.
- Ho visto la macchina parcheggiata e…
Poi di colpo non sono più paralizzato. Me ne accorgo perché all’improvviso faccio quello che non sono riuscito a fare nel momento in cui andava fatto (subito dopo aver riconosciuto l’uomo, mentre adesso sembra più che altro lo smaltimento di un impulso in lista d’attesa e ha un effetto, be’ si, abbastanza comico, com’è noto essendo la comicità una questione di tempo, e qui di tempo, tra quando andava fatto e quando lo faccio, ne è passato abbastanza per contenere tutti gli ipotetici fulminei eventi per difendersi dai quali un gesto del genere viene fatto – tipo una pistolettata, per esempio, o una bastonata in testa, o un cazzotto in faccia, o anche soltanto un panzone armato che ti dà una spinta e fa irruzione nel tuo appartamento dopodiché sa Iddio cosa succederà. Senonché è pur vero che nessuno di questi eventi si è verificato, e che anzi non è ancora successo niente di niente, poiché siamo rimasti tutti e due immobili sulla soglia, io paralizzato, lui sorridente con la mia borsa in mano, per cui alla fine, comica quanto si vuole, , si tratta pur sempre dell’unica mossa sensata a mia disposizione, vale a dire: richiudergli di schianto la porta in faccia (slam!) e mettere il paletto.
Porta di casa mia. Io di qua, lui di là.
Fuori, oltre i muri friabili in calce e foratelli con cui questo palazzo è stato costruito in fretta e furia subito dopo la guerra, nel mio quartierino senza nome e poi via via in tutta Roma, in tutta Italia, in tutta Europa, ij questo momento si prepara la cena, si annaffia il giardino, si gioca con i bambini, si torna a casa dalle gite, si guardano i telegiornali o, come di sicuro sta facendo Franceschino a Viareggio, vecchi cartoni animati giapponesi su oscuri canali locali dal logo indecifrabile. E a me invece chissà cosa sta per succedere…
- Gianni! la sua voce è calda, dolce, e attraversa a malapena il legno del portone: è talmente in contrasto col suo aspetto che pare gliel’abbiano fatta dopo, per rimediare.
- Scusa, non volevo spaventarti!
- La borsa – dice l’uomo – ti ho riportato la borsa.
Io sono ancora paralizzato. È strana, come sensazione: vedo tutto, percepisco tutto (anzi, la mia impressione è che in questo stato si percepiscano molte più cose), ma non riesco a muovermi di un millimetro né a emettere un suono, ogni singolo impulso che lancio va a vuoto, e sto malissimo. Non posso dire che sia una sensazione nuova, poiché è più o meno quella che si prova negli incubi, ma da svegli è tutta un’altra cosa. A malapena riesco a dirigere gli occhi verso le mani dell’uomo, che in effetti stringono i manici della mia borsa da viaggio di cuoio marrone: è proprio lei, quella lasciata nel fuoristrada, con dentro computer e tutto.
- Tieni – fa lui, e me la porge.
La segreteria ha finito di registrare, e lancia il suo tu-tu di fine messaggio. L’uomo sorride, la borsa a mezz’aria, offerta in un gesto quasi votivo.
- Ho visto la macchina parcheggiata e…
Poi di colpo non sono più paralizzato. Me ne accorgo perché all’improvviso faccio quello che non sono riuscito a fare nel momento in cui andava fatto (subito dopo aver riconosciuto l’uomo, mentre adesso sembra più che altro lo smaltimento di un impulso in lista d’attesa e ha un effetto, be’ si, abbastanza comico, com’è noto essendo la comicità una questione di tempo, e qui di tempo, tra quando andava fatto e quando lo faccio, ne è passato abbastanza per contenere tutti gli ipotetici fulminei eventi per difendersi dai quali un gesto del genere viene fatto – tipo una pistolettata, per esempio, o una bastonata in testa, o un cazzotto in faccia, o anche soltanto un panzone armato che ti dà una spinta e fa irruzione nel tuo appartamento dopodiché sa Iddio cosa succederà. Senonché è pur vero che nessuno di questi eventi si è verificato, e che anzi non è ancora successo niente di niente, poiché siamo rimasti tutti e due immobili sulla soglia, io paralizzato, lui sorridente con la mia borsa in mano, per cui alla fine, comica quanto si vuole, , si tratta pur sempre dell’unica mossa sensata a mia disposizione, vale a dire: richiudergli di schianto la porta in faccia (slam!) e mettere il paletto.
Porta di casa mia. Io di qua, lui di là.
Fuori, oltre i muri friabili in calce e foratelli con cui questo palazzo è stato costruito in fretta e furia subito dopo la guerra, nel mio quartierino senza nome e poi via via in tutta Roma, in tutta Italia, in tutta Europa, ij questo momento si prepara la cena, si annaffia il giardino, si gioca con i bambini, si torna a casa dalle gite, si guardano i telegiornali o, come di sicuro sta facendo Franceschino a Viareggio, vecchi cartoni animati giapponesi su oscuri canali locali dal logo indecifrabile. E a me invece chissà cosa sta per succedere…
- Gianni! la sua voce è calda, dolce, e attraversa a malapena il legno del portone: è talmente in contrasto col suo aspetto che pare gliel’abbiano fatta dopo, per rimediare.
- Scusa, non volevo spaventarti!
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