opera di Igor Mitoraj
da Il libro dell’inquietudine – Fernando Pessoa
99. La vita è per noi ciò che in essa immaginiamo. Per il contadino per
il quale il suo campo è tutto, quel campo è un impero. Per Cesare il
cui impero gli sembra ancora poco, quell’impero è un campo. Il povero
possiede un impero; il grande possiede un campo. In realtà non
possediamo altro che le nostre sensazioni; su di esse, dunque, dobbiamo
basare la realtà della nostra vita,
piuttosto che su quello che esse vedono. Questo non viene a proposito di
niente. Ho sognato molto. Sono stanco di aver sognato, ma non sono
stanco di sognare. Nessuno si stanca di sognare, perché sognare è
dimenticare e dimenticare non pesa ed è un sonno senza sogni in cui
siamo svegli. Nei sogni ho ottenuto tutto. Mi sono anche risvegliato, ma
che importa? Quanti Cesari sono stato! E i gloriosi che meschini!
Cesare, salvato dalla morte grazie alla generosità di un pirata, fa
crocifiggere quello stesso pirata non appena riesce a catturarlo, dopo
una minuziosa ricerca. Napoleone, nel fare testamento a Sant’Elena,
lascia un’eredità a un facinoroso che aveva tentato di assassinare
Wellington. Oh, glorie, pari a quella della vicina strabica! Oh, grandi
uomini della cuoca di un altro mondo! Quanti Cesari sono stato e sogno
ancora di essere! Ma i Cesari che sono stato non sono Cesari reali. Sono
stato davvero imperiale fin tanto che sognavo e per questo non sono mai
stato nulla. I miei eserciti sono stati sconfitti, ma la disfatta è
stata blanda e nessuno è morto. Non ho perduto stendardi. Non ho sognato
il mio esercito fino al punto [sic], in cui questi stendardi sarebbero
apparsi al mio sguardo nel cui sogno fanno angolo. Quanti Cesari sono
stato, proprio qui, in Rua dos Douradores. E i Cesari che sono stato
ancora vivono nella mia immaginazione; ma i Cesari esistiti sono morti e
la Rua dos Douradores, cioè la Realtà, non li può conoscere. Getto la
scatola dei fiammiferi vuota, nell’abisso della strada oltre il
parapetto della mia finestra alta senza balcone. Mi alzo dalla seggiola e
ascolto. Nitidamente, come se avesse un significato, la scatola di
fiammiferi vuota risuona sulla strada che essa mi rivela deserta. Non
c’è nessun altro rumore, oltre a tutti i rumori della città. Sì, i
rumori della città di domenica: tanti, confusi, e tutti giusti. Quante
cose insignificanti costituiscono, nel mondo reale, la base delle
meditazioni migliori. Essere arrivato tardi per il pranzo, i fiammiferi
finiti, avere gettato, personalmente, la scatola sulla strada,
maldisposto perché avevo mangiato fuori orario, il fatto che la domenica
sia il preannuncio nell’aria di un brutto tramonto, il fatto di non
essere nessuno nel mondo, e tutta la metafisica. Ma quanti Cesari sono
stato!
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