Edith Piaf - da pinterest
Evgenij Evtusenko - Così la Piaf usciva dalla scena
C’era a Parigi, c’era una sala e davanti alla sala
qualcuno motteggiava, volteggiando col sedere,
avendo coi suoi salti calpestato l’arte per un’ora…
Era solo un proemio per la Piaf.
Ed ecco entrò, fino al fanatismo
simile a un rozzo idolo,
come se, sbagliando porta, in uno sketch allegro
entrasse una tragedia stanca.
E, sulle stolidaggini da baraccone
ella si eresse, pallida e senza forze,
come una piccola civetta dagli occhi ammalati,
pesante con le sue ali spossate.
Piccoletta e truccata, coll’abito corto,
trattenendo la tosse, con un filo di vita,
ti apparteneva, o epoca,
reggendosi appena sulle gambette esili.
Ci guardava, come guardando la Senna,
dal cui parapetto fosse lì, lì per lanciarsi;
e sentivo la voglia di correre sul palcoscenico
per sostenerla, ché sarebbe caduta.
Un gesto preciso della manina rugosa
e partì l’orchestra… Arrivò fin sull’orlo
del palcoscenico… Costrinse la schiena
a raddrizzarsi e, tremando, aspirò la musica.
Cominciò a cantare, quasi prendendo il volo,
ricadendo davanti agli sguardi puntati,
quel corpo tagliuzzato dai chirurghi,
ansando, girandosi su se stesso, come dentro di noi!
Esso, volteggiando, singhiozzava, rideva con fragore,
bisbigliava come le erbe in delirio al Bois de Boulogne,
rimbombava come un carrettino a Saint-Germain,
urlava come una sirena. Questa era la Piaf.
In lei una mescolanza di campane a stormo,
di pioggia a dirotto, di cannonate,
di insulti, di gemiti, di mormorii, di fantasmi…
Così noi, a un tratto, quasi senza volerlo,
ci sentivamo nei suoi confronti buoni come dei giganti con una lillipuziana.
Attraverso la sua gola passava il dolore, passava la fede,
passavano le stelle, passavano le campane…
Giocando, come una gigantessa, ci prendeva nella mano,
come tanti miseri Gulliver.
Ma in lei, artista autentica, la cosa più importante
era che, a dispetto della morte che l’aspettava,
per la sua gola passavano nuovi artisti,
che dietro si lasciavano nodi di lacrime.
Così la Piaf, uscendo di scena, come tuono,
profetizzava nella sua frenesia.
La piccola civetta cantava, come canterebbe una chimera
caduta sul palcoscenico dall’alto di Notre-Dame.
C’era a Parigi, c’era una sala e davanti alla sala
qualcuno motteggiava, volteggiando col sedere,
avendo coi suoi salti calpestato l’arte per un’ora…
Era solo un proemio per la Piaf.
Ed ecco entrò, fino al fanatismo
simile a un rozzo idolo,
come se, sbagliando porta, in uno sketch allegro
entrasse una tragedia stanca.
E, sulle stolidaggini da baraccone
ella si eresse, pallida e senza forze,
come una piccola civetta dagli occhi ammalati,
pesante con le sue ali spossate.
Piccoletta e truccata, coll’abito corto,
trattenendo la tosse, con un filo di vita,
ti apparteneva, o epoca,
reggendosi appena sulle gambette esili.
Ci guardava, come guardando la Senna,
dal cui parapetto fosse lì, lì per lanciarsi;
e sentivo la voglia di correre sul palcoscenico
per sostenerla, ché sarebbe caduta.
Un gesto preciso della manina rugosa
e partì l’orchestra… Arrivò fin sull’orlo
del palcoscenico… Costrinse la schiena
a raddrizzarsi e, tremando, aspirò la musica.
Cominciò a cantare, quasi prendendo il volo,
ricadendo davanti agli sguardi puntati,
quel corpo tagliuzzato dai chirurghi,
ansando, girandosi su se stesso, come dentro di noi!
Esso, volteggiando, singhiozzava, rideva con fragore,
bisbigliava come le erbe in delirio al Bois de Boulogne,
rimbombava come un carrettino a Saint-Germain,
urlava come una sirena. Questa era la Piaf.
In lei una mescolanza di campane a stormo,
di pioggia a dirotto, di cannonate,
di insulti, di gemiti, di mormorii, di fantasmi…
Così noi, a un tratto, quasi senza volerlo,
ci sentivamo nei suoi confronti buoni come dei giganti con una lillipuziana.
Attraverso la sua gola passava il dolore, passava la fede,
passavano le stelle, passavano le campane…
Giocando, come una gigantessa, ci prendeva nella mano,
come tanti miseri Gulliver.
Ma in lei, artista autentica, la cosa più importante
era che, a dispetto della morte che l’aspettava,
per la sua gola passavano nuovi artisti,
che dietro si lasciavano nodi di lacrime.
Così la Piaf, uscendo di scena, come tuono,
profetizzava nella sua frenesia.
La piccola civetta cantava, come canterebbe una chimera
caduta sul palcoscenico dall’alto di Notre-Dame.
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