Fernando Botero - La Maison De Raquel Vega
da “La pensione Eva” -
Andrea Camilleri
(…)
E che dire di quello
che capitò in quel lunedì che la Signura Flora non fu presente a tavola pirchì
approfittò del jorno di libertà per andare a trovare a Palermo una sua soro che
era malata seria?
In quel lunedì, che
po’ fu ricordato come “la serata epica” o “la serata delle metamorfosi”, vennero
a combaciare, ad appattarsi, almeno tri felici e casuali combinazioni.
La prima fu che
Jacolino, che non si capiva come arrinisciva di tanto in tanto a presentarsi
con roba dei tidischi (o si capiva benissimo dato che suo patre coi tidischi
c’intrallazzava), s’arricampò quella sera alla Pensione Eva con dù bottiglie di
un liquore virdastro, impossibile capire come si chiamava, che quando se ne
beveva una sula stizza pareva foco nel cannarozzo. Questo liquore, ammiscato
col vino ad alta gradazione, fu capace di provocare una ‘mbriacatura totale,
persa, di quelle che passano tri jorni doppo.
La secunda fu che
Nenè aveva appresso l’Orlando furioso che gli aveva restituito un amico
incontrato tanticchia prima di andare alla Pensione.
La terza fu la
composizione, piuttosto stramma, della nova quindicina. Infatti, delle sei
picciotte arrivate la sera avanti, cinco parivano fabbricate con lo stampino. E
il bello è che parlavano lo stisso ‘ntifico dialetto. Erano tutte tracagnotte,
minnute e di natiche grosse, squasi certo che erano state viddrane abituate
alle faticate di campagna. Spesso parlavano vastaso (in genere, le picciotte
parlavano accussì sulo davanti ai clienti) ed erano capaci della qualunque
senza affruntarsi, senza vrigognarsi. La sesta invece faceva cezzioni, era alta
e rossa di pelo e capelli, biddricchia, piuttosto riservata.
Quando ‘sta
picciotta, nome d’arte Giusi, vide il libro che Nenè aveva posato supra il
tanger, lo andò a taliare.
«Ah, l‘Orlando
furioso!» disse.
Nenè fu pigliato di
curiosità.
«Lo conosci?»
«Sì. Me ne hanno
fatto leggere qualcosa a scuola.»
«Che scuola hai
fatto?»
«Sono arrivata alla
seconda liceo.»
Ma si vedeva che non
aveva gana di parlare delle cose sue, e Nenè lassò perdere.
Mangiando, ma
soprattutto bevendo, le voci si isarono di tono, le risate si fecero più avute.
Una delle picciotte contò una storia che le era capitata in un casino piemontese.
La prima sera che
arrivò, disse, aveva notato a uno che subito appena la vide non le levò più
l’occhi d’incoddro. La taliava e la taliava, ma non si faceva avanti, non la
sceglieva. Lei andava con un cliente, tornava e quell’omo sempre lì, assittato
a taliarla. La sera appresso capitò la stissa cosa e macari la sera doppo.
Sulo all’ultima sera
della quindicina l’omo si susì, le fece ‘nzinga e andò in càmmara con lei. La
picciotta, tra curiosa e scantata, si disponeva già a un assalto violento
quando l’omo, mutànghero, fattala assittare supra il letto, s’agginocchiò vistuto
com’era, le posò la testa supra le gambe e restò accussì, senza parlare, senza
cataminarsi. Doppo un quarto d’ora che stava agginucchiato e a lei le erano venute
le formicole, l’omo infilò una mano ‘n sacchetta, cavò una caramella, la scartò
a lento, se la mise dintra la vucca, doppo la tirò fora, la taliò e l’infilò nella
vucca della picciotta.
«Non masticarla» le
raccomandò.
Doppo tanticchia
l’omo disse:
«Ridammela.»
La pigliò e se
l’infilò nuovamente nella vucca. E accussì, ‘na vota tu e ‘na vota io, la
caramella finì.
«È stato bellissimo,
grazie» disse l’omo.
E andò a pagare la
mezzora.
Tutti risero.
(…)
Nessun commento:
Posta un commento