Niklai Ge - Achille piange la morte di Patroclo
Da Omero, Iliade - Alessandro Baricco
Agamennone
Piansero su quel
corpo tutta la notte. L'avevano lavato dal sangue e dalla polvere, e nelle
ferite avevano versato unguento finissimo. perché non perdesse la sua bellezza,
avevano fatto colare ambrosia e nettare nelle narici. Poi avevano posato il corpo
sul letto funebre, avvolto in un soffice telo di lino, e coperto da un bianco mantello.
Patroclo. Era solo un ragazzo, non sono nemmeno sicuro che fosse un eroe.
Adesso ne avevano fatto un dio.
Sorse l'alba, sui
loro lamenti, e venne il giorno che per sempre avrei ricordato come il giorno
della mia fine. Portarono ad Achille le armi che i migliori artigiani achei avevano
costruito per lui, quella notte, lavorando con arte divina. Le posarono ai suoi
piedi. Lui era abbracciato al corpo di Patroclo, e stava singhiozzando. Voltò
lo sguardo verso le armi. E gli occhi gli brillarono di una luce sinistra.
Erano armi come nessuno mai ne aveva viste o indossate. Sembravano fatte da un
dio per un dio. Erano una tentazione a cui Achille mai avrebbe potuto
resistere.
Così si alzò,
finalmente, si allontanò da quel corpo, e gridando, e muovendosi a grandi passi
tra le navi, chiamò i guerrieri in assemblea. Io capii che la nostra guerra si
sarebbe decisa lì quando vidi arrivare, correndo, perfino i timonieri delle
navi, o i dispensieri delle cucine, gente che non partecipava mai alle
assemblee. Ma quel giorno arrivarono, anche loro, a stringersi intorno agli
eroi e ai principi, per conoscere il proprio destino. Io aspettai che fossero
tutti seduti. Aspettai che arrivasse Aiace, e che Ulisse prendesse il suo
posto, in prima fila. Li vidi arrivare
zoppicanti per le
ferite. Poi, ultimo, entrai nell'assemblea.
Achille si alzò.
Tutti tacquero. "Agamennone", disse. "Non è stata una grande
idea litigare, io e te, per una ragazza. Fosse morta subito, appena salita
sulla mia nave, tanti Achei non avrebbero morso la terra infinita mentre io
sedevo lontano, prigioniero della mia ira. Comunque sia andata, è ora di
dominare il cuore nel petto, e dimenticare il passato. Oggi io abbandono la mia
ira e torno a combattere. Tu raduna gli Achei ed esortali a combattere con me,
perché i Troiani la finiscano di dormire sotto le nostre navi."
Da ogni parte i
guerrieri si misero a esultare. In quel grande clamore io presi la parola.
Rimasi seduto al mio posto e chiesi che facessero silenzio. Io, il re dei re, dovetti
chiedere che facessero silenzio. Poi dissi: "Molto mi avete rimproverato perché
quel giorno ho tolto ad Achille il suo dono d'onore. E oggi io so di aver sbagliato.
Ma non sbagliano anche gli dei? La stoltezza ha piedi leggeri e non sfiora la
terra, ma cammina nella testa degli uomini per la loro rovina: e se li prende,
uno ad uno, quando più le piace. Ha preso me quel giorno, e mi ha tolto il
senno. Oggi voglio compensare quell'errore porgendoti doni infiniti,
Achille".
Lui mi stette ad
ascoltare. Poi disse che accettava i miei doni, ma non quel giorno, quel giorno
bisognava scendere in battaglia senza perdere altro tempo, perché una grande
impresa lo attendeva. Era così follemente avido di guerra, che neanche un'ora
sarebbe stato capace di aspettare.
Allora si alzò
Ulisse. "Achille", disse, "Non puoi portare un esercito in
battaglia senza prima farlo mangiare. Tutto il giorno dovranno combattere, fino
al tramonto: e solo chi ha mangiato e bevuto può sostenere la battaglia con
cuore saldo e membra forti. Ascolta me: rimanda i guerrieri alle navi, a
prepararsi un pasto. E intanto facciamo portare da Agamennone i suoi doni, qui,
in mezzo all'assemblea, perché tutti possano vederli e ammirarli. E poi lascia
che davanti a tutti Agamennone giuri in modo solenne di non essersi unito a
Briseide, così come fanno uomini e donne. Sarà più sereno il tuo cuore quando
scenderai in battaglia. E tu Agamennone organizza un ricco banchetto nella tua
tenda, per Achille, in modo che la giustizia che gli è dovuta sia piena. E
degno di un re chiedere scusa, se qualcuno ha offeso."
Così parlò. Ma
Achille non ne voleva sapere. "La terra è coperta dei morti che Ettore ha
seminato dietro di sé, e voi volete mangiare? Mangeremo al tramonto, io voglio che
questo esercito combatta affamato. Patroclo giace cadavere e aspetta vendetta: io
vi dico che né cibo né bevanda passeranno dalla mia gola prima di avergliela
resa. Non mi importa nulla di doni e banchetti, adesso. Io voglio sangue, e
stragi, e lamenti."
Così disse. Ma Ulisse
non era il tipo da farsi piegare. Un altro avrebbe chinato il capo, io l'avrei
fatto, ma non lui. "Achille, migliore fra tutti gli Achei, tu sei più
forte di me a manovrare la lancia, questo è sicuro, ma io sono più saggio di
te, perché sono vecchio e ho visto molte cose. Accetta il mio consiglio. Sarà
una dura battaglia, e tanta fatica ci aspetta prima di vincerla. E giusto che
piangiamo i nostri morti: ma dobbiamo farlo con la pancia? Non è nostro diritto
anche riprenderci dalla fatica, e col cibo e il vino ritrovare la forza? Colui
che muore seppelliamolo con animo forte, e piangiamolo dall'alba al tramonto.
Ma poi pensiamo a noi, perché possiamo tornare a inseguire il nemico con
vigore, senza tregua, senza respiro, sotto le armi di bronzo. così io ordino
che nessuno scenda in battaglia prima di aver mangiato e bevuto: tutti insieme,
poi, ci scaglieremo sui Troiani, risvegliando l'atroce battaglia."
Così disse. E gli
ubbidirono. E Achille gli ubbidì. Ulisse prese con sé alcuni giovani e andò
alla mia tenda. Portò fuori, uno ad uno, i doni che avevo promesso, tripodi, cavalli,
donne, oro. E Briseide. Portò tutto in mezzo all'assemblea e poi mi guardò. Io mi
alzai. La ferita al braccio mi faceva impazzire, ma mi alzai. Io, il re dei re,
sollevai le braccia al cielo e davanti a tutti dovetti dire queste parole:
"Io giuro, davanti a Zeus, e alla Terra e al Sole, e alle Erinni, che mai
la mia mano ha sfiorato questa ragazza che si chiama Briseide, né mai ho diviso
il letto con lei. Nella mia tenda è rimasta, e adesso la restituisco intatta.
Che gli dei mi infliggano pene tremende, se
non ho detto il vero".
Non mentivo. Mi ero
preso quella ragazza, ma non il suo cuore. La vidi piangere sul corpo di
Patroclo e la sentii parlare come mai l'avevo sentita. "Patroclo, che eri
tanto caro al mio cuore! Ti ho lasciato che eri vivo, e adesso ti ritrovo
morto. Non c'è fine alla mia sventura. Ho visto morire mio marito, sconciato
dalla lancia di Achille, e ho visto morire tutti i miei fratelli, sotto le mura
della mia città. E quando li piangevo tu mi consolavi e con dolcezza mi dicevi
che mi avresti portata a Ftia e che là Achille mi avrebbe presa come sposa, e
che tutti insieme avremmo festeggiato le nozze, nella gioia. Quella dolcezza io
oggi piango piangendo te, Patroclo." E stringeva quel corpo, singhiozzando,
tra i lamenti delle altre donne.
Achille aspettò che
l'esercito prendesse il pasto. Lui non volle toccare né cibo né vino. Quando
gli uomini iniziarono a riversarsi fuori dalle tende e dalle navi, pronti per
la battaglia, lui indossò le sue nuove armi. Le belle gambiere, con i rinforzi d'argento
alle caviglie; la corazza, intorno al petto; la spada, appesa alle spalle; l'elmo,
sul capo, brillante come una stella. E la lancia, la famosa lancia che il padre
gli aveva donato per dar morte agli eroi. Da ultimo imbracciò lo scudo: era
enorme e possente, sprigionava un bagliore come di luna. Il cosmo intero vi era
inciso: la terra e le acque, gli uomini e le stelle, i vivi e i morti. Noi
combattevamo con in mano delle armi: quell'uomo stava scendendo in battaglia
stringendo in pugno il mondo. Lo vidi, splendente come il sole, salire sul
carro, e urlare ai suoi cavalli immortali di portarlo verso la vendetta. Ce
l'aveva con loro perché non erano stati capaci di sottrarre Patroclo alla
morte, correndo via dalla battaglia. Così li insultava e gli gridava contro. E
dice la leggenda che loro gli risposero, abbassando il muso, e strappando le
redini, gli risposero con voce umana: e gli dissero: correremo veloci come il
vento, Achille, ma più veloce di noi corre il tuo destino, incontro alla morte.
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