opera di Fernando Botero
da Afrodita - Isabel
Allende
(…)
Lola
Montez (1821-18619), la celebre cortigiana ai cui piedi teste coronate e
banchieri lasciarono immense fortune, inventò una danza della tarantola sui generis grazie alla quale poteva far
impazzire di smania e di desiderio gli spettatori. Si faceva passare per un’aristocratica
ballerina spagnola, anche se di danza non sapeva nulla e di spagnolo non aveva
niente, ma quello che le mancava in talento e in sangue lo compensava con la
spigliatezza. Grazie alla furia delle sue nacchere, alla veemenza dei suoi
tacchi e alla malia delle sue bugie si costruì la propria leggenda. (Perché mi
identifico con questa signora?) In privato, Lola Montez generalmente utilizzava
i furori della tarantola come pretesto per spogliarsi dei veli, e tuttavia non
commetteva mai l’errore di rimanere completamente nuda; preferiva far brillare
le sue bellezze tra nubi di pizzo che esaltassero la sua pelle e dissimulasse
le imperfezioni del suo corpo. Nelle rappresentazioni erotiche giapponesi, i
personaggi appaiono sempre splendidamente abbigliati con vestiti di gala per
fare l’amore. Nel linguaggio simbolico di quei quadri le pieghe voluttuose
delle tuniche indicano passione, i fiori e i frutti rappresentano gli organi
sessuali e le dita dei piedi rivolte all’insù l’orgasmo. In India le donne non
si levano mai i gioielli e non si tolgono il kohl dalle palpebre, perché il tintinnare dei braccialetti e l’oscuro
richiamo dello sguardo irretiscono l’uomo nell’attrazione ineffabile del
mistero. Mio nonno, che nacque quando per le strade di Santiago non c’era
ancora la luce elettrica e i trasporti pubblici erano costituiti da tram
trainati da cavalli – carri di sangue erano chiamati –, non venne minimamente
turbato dalla moda della minigonna, mentre già anziano, all’epoca degli hippy,
era disposto a prodursi in agili capriole pur di intravedere una caviglia
femminile che facesse capolino da una lunga gonna. Più che dalla nudità,
sosteneva, la tentazione è provocata dalla trasparenza e da ciò che si può
intuire. E’ questa la chiave del successo della lingerie provocante che non
passerà mai di moda (…)
Anche
il cibo entra dagli occhi. La freschezza degli ingredienti naturali dovrebbe
essere sufficiente, ma l’instancabile inventiva umana cucina, mescola,
trasforma e decora gli alimenti con la stessa passione con cui cura la persona.
L’associazione tra forme e colori dei cibi e del corpo è inevitabile. Un affiche francese d’inizio secolo che
adornava quasi tutti i bagni maschili mostrava una ragazza intenta a succhiare
asparagi con una tale sensualità che solo a un ingenuo poteva sfuggire l’esplicita
allusione. Panchita, che decora la tavola con la stessa civetteria che
caratterizza il suo abbigliamento, sostiene che il colore della cena è
importante: a meno che non si cerchi un effetto determinato, non si può servire
una zuppa di piselli se anche il secondo è verde. Una volta, a Milano, fui
invitata a cena da una famosa stilista. Sulle pareti della sala da pranzo
rivestite da specchi scuri si riflettevano le sedie e la tovaglia nere; su
quello sfondo cupo risaltavano magistralmente e con grande luminosità i fiori e
i tovaglioli gialli. Venne servito un buffet di riso con diverse varietà di
curry su tonalità zafferano; perfino il dolce – un delizioso mango flambé – era
dello stesso colore (…)
preferisco
alimenti allo stato naturale ed è così che mi piacciono anche gli uomini.
Diffido degli ornamenti inutili, degli uomini con catene d’oro, baffi leziosi e
unghie smaltate come pure il pollo da una salsa impenetrabile o dei petali di
fiori che navigano in una zuppa, ma ogni tanto inventare è divertente: asparagi
lunghi e forti con due patate novelle alla base, due mezze pesche con capezzoli
di lampone su un letto di crema chantilly. Agli innamorati disposti a perdere
tempo su questi dettagli raccomando di munirsi di candele a forma di mele,
cuore o Cupido, di una lunga tovaglia di sontuoso satin, di stoviglie evocative
(ne ho un servizio che riproduce gli affreschi erotici di Pompei)
(…)
E
dato che si parla di gelatina, non so resistere alla tentazione di citare i
seguenti versi:
Oh
incanto della cicciona
Gamba
di grandezza elefantina
Che
al grasso si abbandona
Oh
maestà divina
Della
coscia avvolta in gelatina
Evviva
le adipose adoratrici
dello
sforzo nullo
che
lasciano le odiose fatiche al mulo
e
mangiano tutto ciò che ingrossa il culo.
dall’Inno alla cellulite di Enrique Serna
Chiedo
scusa, sto di nuovo delirando. L’aspetto della tavola, il sapore del cibo e
l’abbondanza e la qualità dei liquori determinano l’animo dei commensali. Nel Pranzo di Babette, quel commovente film
tratto da un racconto di Karen Blixen, la cinepresa va e viene per la cucina,
in cui si preparano amorevolmente i piatti, e la sala da pranzo, là dove i visi
severi degli spartani abitanti di un mondo distante e gelato si trasformano a
mano a mano che il vino e le pietanze si impadroniscono dei loro sensi. Nel
Fascino discreto della borghesia, Luis Bunuel crea un’atmosfera di ansia
crescente mostrando tavoli apparecchiati con splendide stoviglie e cristalleria
che gli attori non riescono mai a toccare perché vengono sempre interrotti.
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