opera di Raymond Campbell
da “I racconti” – Italo Svevo
Vino
generoso
Andava a marito una
nipote di mia moglie, in quell’età in cui le fanciulle cessano d’essere tali e
degenerano in zitelle. La poverina fino a poco tempo prima s’era rifiutata alla
vita, ma poi le pressioni di tutta la famiglia l’avevano indotta a ritornarvi,
rinunziando al suo desiderio di purezza e di religione, aveva accettato di
parlare con una giovane che la famiglia aveva prescelto quale un buon partito.
Subito dopo addio religione, addio sogni di virtuosa solitudine, e la data
delle nozze era stata stabilita anche più vicina di quanto i congiunti avessero
desiderato. Ed ora sedevano alla cena della vigilia delle nozze.
Io, da vecchio
licenzioso, ridevo. Che aveva fatto il giovane per indurla a mutare tanto
presto? Probabilmente l’aveva presa tra le braccia per farle sentire il piacere
di vivere e l’aveva sedotta piuttosto che convinta. Perciò era necessario si
facessero loro tanti auguri. Tutti, quando sposano, hanno il bisogno di auguri,
ma quella fanciulla più di tutti. Che disastro, se un giorno essa avesse dovuto
rimpiangere di essersi lasciata rimettere su quella via, da cui per istinto
aveva aborrito. Ed anch’io accompagnai qualche mio bicchiere
con auguri, che seppi
persino confezionare per quel caso speciale: “siate contenti per uno o due
anni, poi gli altri lungi anni li sopporterete più facilmente, grazie alla
riconoscenza di aver goduto. Della gioia resta il rimpianto ed è anch’esso un
dolore che copre quello fondamentale, il vero dolore della vita”. Non pareva
che la sposa sentisse il bisogno di tanti augurii. Mi sembrava anzi ch’essa
avesse la faccia addirittura cristallizzata in un’espressione d’abbandono fiducioso.
Era però la stessa espressione che già aveva avuta quando proclamava la sua
volontà di ritirarsi dal chiostro. Anche questa volta essa faceva un voto, il
voto di essere lieta per tutta la vita. Fanno sempre dei voti certuni a questo
mondo. Avrebbe essa adempiuto questo voto meglio del precedente?
Tutti gli altri, a
quella tavola, erano giocondi con grande naturalezza, come lo sono sempre gli
spettatori. A me la naturalezza mancava del tutto. Era una sera memoranda anche
per me. Mia moglie aveva ottenuto dal dottor Paoli che per quella sera mi fosse
concesso di mangiare e bere come tutti gli altri. Era la libertà resa più
preziosa dal monito che subito dopo mi sarebbe stata tolta. Ed io mi comportai
proprio come quei giovincelli cui si concedono per la prima volta le chiavi di
casa. Mangiavo e bevevo, non per sete o per fame, ma avido di libertà. Ogni
boccone, ogni sorso doveva essere l’asserzione della mia indipendenza. Aprivo
la bocca più di quanto occorresse per ricevervi i singoli bocconi, ed il vino
passava dalla bottiglia nel bicchiere fino a traboccare, e non ve lo lasciavo
che per un istante solo. Sentivo una smania di muovermi io, e là, inchiodato su
quella sedia, seppi avere il sentimento di correre e saltare come un cane
liberato alla catena.
Mia moglie aggravò la
mia condizione raccontando ad una sua vicina a quale regime io di solito fossi
sottoposto, mentre mia figlia Emma, quindicenne, l’ascoltava e si dava
dell’importanza completando le indicazioni della mamma. Volevano dunque
ricordarmi la catena anche in quel momento in cui m’era stata levata? E tutta
la mia tortura fu descritta: come pesavano quel po’ di carne che m’era concessa
a mezzodì, privandola d’ogni sapore, e come di sera non ci fosse nulla da
pesare, perché la cena si componeva di una rosetta con uno spizzico di
prosciutto e di un bicchiere di latte caldo senza zucchero, che mi faceva
nausea. Ed io, mentre parlavano, facevo la critica della scienza del dottore e
del loro affetto. Infatti, se il mio organismo era tanto Iogoro, come si poteva
ammettere che quella sera, perché ci era riuscito quel bei tiro di far sposare
chi la sua elezione non l’avrebbe fatto, esso potesse improvvisamente sopportare
tanta roba indigesta e dannosa? E bevendo mi preparavo alla ribellione del
giorno appresso. Ne avrebbero viste di belle. Gli altri si dedicavano allo champagne,
ma io dopo averne preso qualche bicchiere per rispondere ai vari brindisi, ero
ritornato al vino da pasto comune, un vino istriano secco e sincero, che un
amico di casa aveva inviato per l’occasione. Io l’amavo quel vino, come si
amano i ricordi e non diffidavo di esso, né ero sorpreso che anziché darmi la
gioia e l’oblio facesse aumentare nel mio animo l’ira.
Come potevo non
arrabbiarmi? M’avevano fatto passare un periodo di vita disgraziatissimo.
Spaventato e immiserito, avevo lasciato morire qualunque mio istinto generoso
per far posto a pastiglie, gocce e polverette. Non più socialismo. Che cosa
poteva importarmi se la terra, contrariamente ad ogni più illuminata
conclusione scientifica, continuava ad essere l’oggetto di proprietà privata?
Se a tanti, perciò, non era concesso il pane quotidiano e quella parte di
libertà che dovrebbe adornare ogni giornata dell’uomo? Avevo io forse l’uno o
l’altra?
Quella beata sera
tentai di costituirmi intero. Quando mio nipote Giovanni, un uomo gigantesco
che pesa oltre cento chilogrammi, con la sua voce stentorea si mise a narrare
certe storielle sulla propria furberia e l’altrui dabbenaggine negli affari, io
ritrovai nel mio cuore l’antico altruismo. “Che cosa farai tu – gli gridai –
quando la lotta fra gli uomini non sarà più lotta per ildenaro?”
Per un istante
Giovanni restò intontito alla mia frase densa, che capitava improvvisa a
sconvolgere il suo mondo. Mi guardò fisso con gli occhi ingranditi dagli
occhiali. Cercava nella mia faccia delle spiegazioni per orientarsi.
Poi, mentre tutti lo
guardavano, sperando di poter ridere per una di quelle sue risposte di
materialone ignorante e intelligente, dallo spirito ingenuo e malizioso, che
sorprende sempre ad onta sia stato usato ancor prima che da Sancho Panza, egli
guadagnò tempo dicendo che a tutti il vino alterava la visione del presente, e
a me invece confondeva il futuro. Era qualche cosa, ma poi credette di aver
trovato di meglio e urlo: “quando nessuno lotterà più per il denaro, lo avrò io
senza lotta, tutto, tutto”. Si rise molto, specialmente per un gesto ripetuto
dei suoi braccioni, che dapprima allargò stendendo le spanne, eppoi ristrinse
chiudendo i pugni per far credere di aver afferrato il denaro che a lui doveva
fluire da tutte le parti.
La discussione
continuò e nessuno accorgeva che quando non parlavo bevevo. E bevevo molto e
dicevo poco, intento com’ero a studiare il mio interno, per vedere se
finalmente si riempisse di benevolenza e d’altruismo. Lievemente bruciava
quell’interno. Ma era un bruciore che poi si sarebbe diffuso in un gradevole
tepore, nel sentimento della giovinezza che il vino procura, purtroppo per
breve tempo soltanto.
E, aspettando questo,
gridai a Giovanni: “se raccoglierai il denaro che gli altri rifiuteranno, ti
getteranno in gattabuia.
Ma Giovanni pronto
gridò:“ed io corromperò i carcerieri e farò rinchiudere coloro che non avranno
i denari per corromperli”. “Ma il denaro non corromperà più nessuno”. “E allora
perché non lasciarmelo?” M’arrabbiai smodatamente: “ti appenderemo” urlai. “Non
meriti altro. La corda al collo e dei pesi alle gambe”.
Mi fermai stupito. Mi
pareva di non aver detto esattamente il mio pensiero. Ero proprio fatto così,
io? No, certo no. Riflettei: come ritornare al mio affetto per tutti i viventi,
fra i quali doveva pur esserci anche Giovanni? Gli sorrisi subito, esercitando
uno sforzo immane per correggermi e scusarlo e amarlo. Ma lui me lo impedì,
perché non badò affatto al mio sorriso benevolo e disse, come rassegnandosi
alla constatazione di una mostruosità: “già, tutti i socialisti finiscono in
pratica col ricorrere al mestiere del carnefice”.
(…)
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