Felice Casorati, Persone, particolare
Da La bella estate – Cesare Pavese
1
A quei tempi era
sempre festa. Bastava uscire di casa e traversare la strada, per diventare come
matte, e tutto era così bello, specialmente di notte, che tornando stanche
morte speravano ancora che qualcosa succedesse, che scoppiasse un incendio, che
in casa nascesse un bambino, e magari venisse giorno all'improvviso e tutta la
gente uscisse in strada e si potesse continuare a camminare fino ai prati e fin
dietro le colline. - Siete sane, siete giovani, - dicevano, - siete ragazze,
non avete pensieri, si capisce-. Eppure una di loro, quella Tina che era uscita
zoppa dall'ospedale e in casa non aveva da mangiare, anche lei rideva per
niente, e una sera, trottando dietro gli altri, si era fermata e si era messa a
piangere perché dormire era una stupidaggine e rubava tempo all'allegria.
Ginia, se queste
crisi la prendevano, non si faceva accorgere ma accompagnava a casa qualche
altra e parlava parlava, finché non sapevano più cosa dire. Veniva così il
momento di lasciarsi, che già da un pezzo erano come sole, e Ginia tornava a
casa tranquilla, senza rimpiangere la compagnia. Le notti più belle, si
capisce, erano al sabato, quando andavano a ballare e l'indomani si poteva
dormire. Ma bastava anche meno, e certe mattine Ginia usciva, per andare a
lavorare, felice di quel pezzo di strada che l'aspettava. Le altre dicevano: -
Se torno tardi, poi ho sonno; se torno
tardi, me le suonano -. Ma Ginia non era mai stanca, e suo fratello, che
lavorava di notte, la vedeva soltanto a cena, e di giorno dormiva. Nelle ore
del mezzogiorno (Severino si girava nel letto quando lei entrava) Ginia
preparava la tavola e mangiava affamata masticando adagio, ascoltando i rumori
della casa. Il tempo passava adagio, come fa negli alloggi vuoti, e Ginia aveva
tempo di lavare i piatti "che aspettavano nel lavandino, di fare un po’ di
pulizia;" poi, di stendersi sul sofà sotto la finestra e lasciarsi
assopire al ticchettio della sveglia dall'altra stanza. Qualche volta chiudeva
anche le imposte per far buio e sentirsi più sola. Tanto Rosa alle tre avrebbe
sceso le scale, fermandosi a grattare contro l'uscio, piano per non svegliare
Severino, finché lei non le rispondesse che era sveglia. Allora uscivano
insieme e si lasciavano al tram.
Di comune, Ginia e
Rosa non avevano che quel pezzo di strada e una stella di perline nei capelli.
Ma una volta che passavano davanti a una vetrina e Rosa disse: Sembriamo
sorelle -, Ginia s'accorse che quella stella era ordinaria e capì che doveva
portare un cappellino se non voleva parere anche lei un'operaia. Tanto più che
Rosa, soggetta ancora a padre e madre, non avrebbe potuto pagarsene uno che chi
sa quando.
Quando passava a
svegliarla, Rosa entrava se non era già tardi; e Ginia si faceva aiutare a
rimettere in ordine, ridendo sottovoce di Severino che, come tutti gli uomini,
non sapeva che cosa voglia dire tenere una casa. Rosa lo chiamava «tuo marito»,
per continuare lo scherzo, ma non di rado Ginia si rabbuiava e ribatteva che
avere tutte le noie della casa ma non l'uomo, era poco allegro. Scherzava,
Ginia - perché il suo piacere era proprio di starsene quell'ora in casa da
sola, come una padrona - ma a Rosa bisognava di tanto in tanto far capire che
non erano più bambine. Neanche per strada Rosa sapeva stare, e faceva dei
versacci, rideva, si voltava - Ginia l'avrebbe pestata. Ma quando andavano
insieme a ballare, Rosa era necessaria perché dava a tutti del tu, e con le sue
matterie faceva capire agli altri che Ginia era più fine. In quell'anno così
bello, che cominciavano a vivere da sole, Ginia s'era presto accorta che la sua
differenza dalle altre era di essere sola anche in casa - Severino non contava
- e di potere a sedici anni vivere come una donna. Per questo fin che portò la
stella nei capelli si lasciò accompagnare da Rosa, che la divertiva. Non c'era
un'altra in tutto il rione, che fosse scema come Rosa, quando voleva. Sapeva
smontare chiunque, ridendo e guardando in aria, e delle sere intiere non faceva
né diceva niente che non fosse per commedia. E litigava come un gallo. – Che
cosa hai, Rosa? - diceva qualcuno, mentre si aspettava che cominciasse
l'orchestra. - Paura - (e le uscivano gli occhi dalla testa); - ho visto là
dietro un vecchio che mi fissa, mi aspetta fuori, ho paura. - L'altro non ci credeva.
- Sarà tuo nonno. - Stupido. - Allora balliamo. - No perché ho paura -. Ginia,
a metà del giro, sentiva quell'altro gridare: - Sei una maleducata, una strega,
vatti a nascondere. Torna in fabbrica! - Allora Rosa rideva e faceva ridere gli
altri, ma Ginia, continuando a ballare, pensava che era proprio la fabbrica che
riduceva così una ragazza. E del resto bastava guardare i meccanici, che anche
loro cominciavano la conoscenza facendo questi scherzi.
(…)
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