(…)
La bufera, vecchia strega, fece sbattere il
portone e, galoppando sulla scopa, ferì l’orecchio della ragazza. Le sollevò la
gonna fin sopra le ginocchia, le scoprì le calze color carne e una striscia
sottile di pizzo mal lavata. Soffocò le sue parole e travolse il cane.
«Dio mio. che tempo! Mi fa anche male la pancia! È
quella carne, quella maledetta carne salata! Ma quando finirà tutto questo?».
A capo chino la signorina si lanciò all’attacco,
si riversò fuori dal portone e sfidò la tormenta; in strada il vento la ghermì,
la fece girare come una trottola, poi la risucchiò in un turbinio sfavillante
di neve. Il cane restò invece nel portone, col suo fianco malandato, e si
rannicchiò contro la parete fredda; sentendosi soffocare decise fermamente che
non si sarebbe mosso da là, anche a costo di crepare. Lo colse la disperazione.
Aveva il cuore così colmo di dolore e amarezza e si sentiva così solo e
spaurito, che piccole lacrime canine, come bollicine, gli uscivano dagli occhi
e subito si asciugavano. Dal fianco ferito sporgevano ciuffi di pelo incrostati
di ghiaccio, in mezzo ai quali si intravedevano le sinistre chiazze della
bruciatura.
“Ah, i cuochi! Come sono ottusi, sciocchi e
crudeli! E quella ragazza. Mi ha chiamato Pallino! Pallino un corno! Pallino
significa rotondo e ben nutrito, stupido, che mangia polenta d’avena ed è
figlio di nobili genitori; io invece sono uno spilungone irsuto e spelacchiato,
e per giunta vagabondo senza fissa dimora. Comunque, grazie per le buone parole”.
Dall’altra parte della strada sbatté la porta di
un negozio tutto illuminato, e ne uscì un cittadino.
(…)
Traduzione di
Viveca Melander
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