(…)
Nell’aia spizzuliavano galline e pulcini; le corna a
torciglione delle capre girgintane spuntavano alte dallo steccato della
mandria. Mamma raccontava che Rosalia, la moglie di Luigi, il campiere, a cui
lei e zia Teresa volevano molto bene, aveva offerto loro ’u caffè
du parrinu e del pane ancora tiepido, cotto nel forno a legna.
Quando erano fuggiti dalla fattoria con i bambini, Rosalia s’era portata la
livatina, la pagnottella di pasta lievitata che si conserva ad ogni impastata
di pane, per farla inacidire e trasformarsi nel lievito per le successive
panificazioni. La livatina di Mosè proveniva da una pasta madre mantenuta in vita
dalle femmine della sua famiglia sin dal 1870. Scappando, Rosalia se l’era
messa addosso, sotto le vesti, a diretto contatto con il proprio corpo per
proteggerla e mantenerla calda. Ma la livatina era morta. Era stata rimpiazzata
da un’altra che veniva da una pasta madre regalo di un pastore di
Castrofilippo: “Il pane riesce bene ed è buono, ma non è la stessa cosa” aveva
concluso Rosalia.
Nel frattempo gli uomini erano andati in giro a cavallo nell’uliveto
assieme a Luigi. “Era una bellissima giornata di primavera,” ricordava Mamma “il
sole caldo era temperato da un venticello rinfrescante; le chiome degli ulivi
frusciavano allegre, e la campagna era nel suo splendore, tutta fiorita. Quella
passeggiata fece innamorare Papà di Mosè: lo voleva. Me ne parlò quella sera
stessa e io chiesi a mia sorella se potevamo scambiarci le campagne.”
Zia Teresa volle accontentarla e fu lieta di prendersi in
cambio Narbone.
I lavori di ristrutturazione furono lunghi e costosi. C’erano
impalcature dappertutto, impastatrici di cemento, operai e muratori. Un
magazzino era stato trasformato in falegnameria per Michele, l’anziano
falegname di Agrigento che aveva lavorato per i Giudice quasi tutta la vita:
lui fece tutte le persiane della casa da solo, a mano. La cucina fu rifatta e i
vecchi mobili abbandonati, freschi di una mano di pittura blu e celeste, accolsero
tra loro una moderna cucina economica alimentata dal legno della pota degli ulivi.
Il 19 agosto del 1949 celebrammo a Mosè il primo compleanno di
Chiara; eravamo accampati al primo piano, insieme alle famiglie di zio Giovanni
e zia Teresa. L’illuminazione era data da candele e lampade ad acetilene. Poco
alla volta la casa di Mosè rinasceva e si abbelliva, grazie a Mamma e a Melina,
la sarta, che cucivano tende, fodere, copriletto, tovaglie, tovaglioli, e alla
generosità di parenti e amici che ci mandavano quello che a loro non serviva più,
come servizi di piatti e di bicchieri incompleti, o mobili di cui volevano
sbarazzarsi: divani e poltrone ingombranti, armadi vecchi, l’intera sala da
pranzo liberty e la camera da letto ottocentesca dei nonni Giudice. Malandati e
poi tirati a nuovo, questi mobili furono e rimangono molto amati da noi, e continuano
ad accogliere nelle stanze ombrose di casa nostra la famiglia allargata, amici
e ospiti di passaggio; ci ricordano la solidarietà all’interno delle famiglie e
l’affetto di amici generosi. I miei figli, nati a Oxford, sono stati portati a
Mosè da neonati, e ci ritornano ogni anno, più di una volta, con i loro bambini
e con amici, come facevamo Chiara ed io.
Alla morte di Papà, nel 1985, in fattoria vivevano soltanto
Rosalia e i figli maggiori, Lillo e Vincenzo, con le rispettive mogli: ambedue
non avevano figli. Lillo era emigrato in Francia per anni; poi era tornato e
curava il gregge. Vincenzo, il primo dei Vella a guidare il trattore, era il
fattore di Mosè: i tempi erano cambiati e la figura del campiere era diventata
desueta.
La posizione di campiere si tramandava tra i Vella di padre in
figlio, ed era passata a Luigi, padre di Vincenzo e l’ultimo a ricoprire questo
ruolo a Mosè. Il campiere era un uomo di fiducia che andava a cavallo terre
terre per controllare i possedimenti del padrone; aveva ancora una funzione
importante nella Sicilia del dopoguerra – era suo compito controllare ogni
giorno, per conto della famiglia, che non ci fossero scanusciuti, animali
altrui, o cani randagi nelle nostre terre, che gli abbeveratoi fossero puliti e
in ordine. Inoltre, il campiere, sempre all’erta su quello che succedeva nel
territorio, bloccava i tentativi di furti, di incendi e di abigeati.
Vincenzo oggi ha quasi ottant’anni; vedovo, continua a vivere
a Mosè e vede come suo erede Luigi, figlio di Totu, il fratello più giovane,
che, da pensionato, si è trasferito a Mosè per badare alla ménagerie degli
animali del figlio – galline, oche, cavalli e un piccolo gregge di pecore e
capre – e per aiutarlo nella preparazione dei formaggi e della ricotta.
Chiara, di professione architetto, volle occuparsi della
tenuta, che convertì all’agricoltura biologica; ricavò dalle case vuote dei
contadini e dalle stalle disusate sei appartamenti che aprono su un baglio
trasformato in giardino: fanno parte dell’agriturismo Fattoria Mosè che
accoglie ospiti da tutto il mondo. Ora, noi e i nostri amici condividiamo con i
turisti il pranzo alla nostra tavola.
Ascoltando la conversazione, sembra che nulla sia cambiato a
Mosè.
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