da "Alla ricerca del tempo perduto" - Marcel Proust
Tornai
a casa. Avevo vissuto il Capodanno dei vecchi, che differiscono in quel
giorno dai giovani non perché non ricevono più strenne, ma perché non
credono più all'anno nuovo. Strenne io ne avevo avute, ma non
quell'unica che mi avrebbe fatto piacere e che sarebbe stata un
messaggio di Gilberte. Tuttavia, ero pur sempre giovane, se avevo potuto
scrivergliene uno con la speranza che dirle i sogni lontani
della mia tenerezza ne risvegliasse di simili in lei. La tristezza
degli uomini che sono invecchiati è di non pensare neppure a scrivere
certe lettere di cui hanno imparato l'inutilità.
Quando fui a letto, i rumori della strada, che si prolungavano più del solito in quella sera di festa, mi tennero sveglio. Pensavo a tutti quelli che avrebbero finito quella notte nei piaceri, all'amante, alla comitiva di dissoluti forse, che doveva essere andata a prendere la Berma al termine della rappresentazione che avevo visto annunciata per quella sera. Non potevo nemmeno dirmi, per calmare l'agitazione che una tale idea mi faceva nascere dentro in quella notte d'insonnia, che forse la Berma non pensava all'amore, perché i versi che recitava, che aveva lungamente studiati, le rammentavano a ogni istante che esso è delizioso, come del resto lei sapeva così bene da farne apparire il turbamento ben noto - ma animato da una violenza nuova e da una dolcezza insospettata – a spettatori stupiti, ciascuno dei quali tuttavia l'aveva sperimentato personalmente. Riaccesi il lume spento per guardare ancora una volta il suo viso. Al pensiero che sicuramente in quel momento, esso era accarezzato da quegli uomini a cui non potevo impedire di dare alla Berma e di ricevere da lei gioie sovrumane e vaghe, provai un'emozione più crudele che voluttuosa, una nostalgia che fu aggravata dal suono del corno, come avviene di udirlo la notti di mezza quaresima, e spesso di altre feste, e che è più triste, perché è senza poesia quando proviene da una bettola, che non «la sera, nel fondo dei boschi». In quel momento, un messaggio di Gilberte non sarebbe stato forse quello di cui avevo bisogno. I nostri desideri interferiscono via via fra loro, e, nella confusione dell'esistenza, è raro che una felicità giunga a posarsi esattamente sul desiderio che l'aveva invocata.
Continuai ad andare agli Champs-Élysées i giorni di bel tempo, lungo strade le cui case eleganti e rosate erano immerse - erano in grande auge in quel momento le mostre degli acquerellisti - in un cielo mobile e lieve. Mentirei se dicessi che a quel tempo i palazzi di Gabriel mi parevano d'una bellezza maggiore o almeno d'un'altra epoca degli edifici vicini. Riconoscevo più stile e, mi sembrava, più antichità, se non al Palazzo dell'Industria, certo a quello del Trocadéro. Immersa in un sonno agitato, la mia adolescenza avvolgeva in uno stesso sogno tutto il quartiere ih cui lo portava in giro; e non avevo mai pensato che potesse esserci un edificio del Diciottesimo secolo nella rue Royale, così come sarei stato sorpreso di venire a sapere che la Porte Saint-Martin e la Porte Saint-Denis, capolavori del tempo di Luigi Quattordicesimo, non erano contemporanee degli immobili più recenti di quei sordidi quartieri.
Una sola volta uno dei palazzi di Gabriel mi fece fermare a lungo; sopravvenuta la notte, le sue colonne smaterializzate dal chiaro di luna sembravano ritagliate nel cartone, e, ricordandomi uno scenario dell'operetta "Orphée aux Enfers", mi davano per la prima volta un'impressione di bellezza. Gilberte però continuava a non tornare agli Champs-Élysées. Eppure, avrei avuto bisogno di vederla, perché non ricordavo nemmeno il suo viso. Il modo indagatore, ansioso, esigente che abbiamo di guardare la persona amata, l'attesa della parola che ci darà o ci toglierà la speranza di un appuntamento per l'indomani e, finché quella parola non è detta, il nostro alterno, se non simultaneo, immaginare la gioia e la disperazione, tutto ciò rende la nostra attenzione davanti all'essere amato troppo trepidante perché possa ottenere di lui un'immagine ben precisa. Forse anche questa attività contemporanea di tutti i sensi, e che cerca di conoscere con i soli sguardi ciò che è al di là di essi, è troppo indulgente alle mille forme, a tutti i sapori, ai movimenti della persona viva che di solito, quando non amiamo, immobilizziamo. Il modello a noi caro, invece, si muove, e non riusciamo ad averne mai altro che fotografie mancate. Io non sapevo più veramente come fossero fatti i lineamenti di Gilberte, salvo nei momenti divini in cui lei li dispiegava per me; ricordavo solo il suo sorriso. E, non potendo rivedere quel viso diletto, per quanto mi sforzassi di ricordarmelo, mi irritavo di trovare, disegnati nella mia memoria con un'esattezza definitiva, i visi inutili ed evidenti dell'uomo della giostra e della venditrice di zucchero d'orzo: così chi ha perduto un essere amato che dormendo non rivede mai, si esaspera nell'incontrare incessantemente nei sogni tanta gente insopportabile e che è già troppo aver conosciuta da sveglio. Nella sua impotenza a rappresentarsi l'oggetto del proprio dolore, quasi si accusa di non provare dolore. E io non ero lontano dal credere che, non potendomi rammentare i lineamenti di Gilberte, l'avevo dimenticata, non l'amavo più.
Quando fui a letto, i rumori della strada, che si prolungavano più del solito in quella sera di festa, mi tennero sveglio. Pensavo a tutti quelli che avrebbero finito quella notte nei piaceri, all'amante, alla comitiva di dissoluti forse, che doveva essere andata a prendere la Berma al termine della rappresentazione che avevo visto annunciata per quella sera. Non potevo nemmeno dirmi, per calmare l'agitazione che una tale idea mi faceva nascere dentro in quella notte d'insonnia, che forse la Berma non pensava all'amore, perché i versi che recitava, che aveva lungamente studiati, le rammentavano a ogni istante che esso è delizioso, come del resto lei sapeva così bene da farne apparire il turbamento ben noto - ma animato da una violenza nuova e da una dolcezza insospettata – a spettatori stupiti, ciascuno dei quali tuttavia l'aveva sperimentato personalmente. Riaccesi il lume spento per guardare ancora una volta il suo viso. Al pensiero che sicuramente in quel momento, esso era accarezzato da quegli uomini a cui non potevo impedire di dare alla Berma e di ricevere da lei gioie sovrumane e vaghe, provai un'emozione più crudele che voluttuosa, una nostalgia che fu aggravata dal suono del corno, come avviene di udirlo la notti di mezza quaresima, e spesso di altre feste, e che è più triste, perché è senza poesia quando proviene da una bettola, che non «la sera, nel fondo dei boschi». In quel momento, un messaggio di Gilberte non sarebbe stato forse quello di cui avevo bisogno. I nostri desideri interferiscono via via fra loro, e, nella confusione dell'esistenza, è raro che una felicità giunga a posarsi esattamente sul desiderio che l'aveva invocata.
Continuai ad andare agli Champs-Élysées i giorni di bel tempo, lungo strade le cui case eleganti e rosate erano immerse - erano in grande auge in quel momento le mostre degli acquerellisti - in un cielo mobile e lieve. Mentirei se dicessi che a quel tempo i palazzi di Gabriel mi parevano d'una bellezza maggiore o almeno d'un'altra epoca degli edifici vicini. Riconoscevo più stile e, mi sembrava, più antichità, se non al Palazzo dell'Industria, certo a quello del Trocadéro. Immersa in un sonno agitato, la mia adolescenza avvolgeva in uno stesso sogno tutto il quartiere ih cui lo portava in giro; e non avevo mai pensato che potesse esserci un edificio del Diciottesimo secolo nella rue Royale, così come sarei stato sorpreso di venire a sapere che la Porte Saint-Martin e la Porte Saint-Denis, capolavori del tempo di Luigi Quattordicesimo, non erano contemporanee degli immobili più recenti di quei sordidi quartieri.
Una sola volta uno dei palazzi di Gabriel mi fece fermare a lungo; sopravvenuta la notte, le sue colonne smaterializzate dal chiaro di luna sembravano ritagliate nel cartone, e, ricordandomi uno scenario dell'operetta "Orphée aux Enfers", mi davano per la prima volta un'impressione di bellezza. Gilberte però continuava a non tornare agli Champs-Élysées. Eppure, avrei avuto bisogno di vederla, perché non ricordavo nemmeno il suo viso. Il modo indagatore, ansioso, esigente che abbiamo di guardare la persona amata, l'attesa della parola che ci darà o ci toglierà la speranza di un appuntamento per l'indomani e, finché quella parola non è detta, il nostro alterno, se non simultaneo, immaginare la gioia e la disperazione, tutto ciò rende la nostra attenzione davanti all'essere amato troppo trepidante perché possa ottenere di lui un'immagine ben precisa. Forse anche questa attività contemporanea di tutti i sensi, e che cerca di conoscere con i soli sguardi ciò che è al di là di essi, è troppo indulgente alle mille forme, a tutti i sapori, ai movimenti della persona viva che di solito, quando non amiamo, immobilizziamo. Il modello a noi caro, invece, si muove, e non riusciamo ad averne mai altro che fotografie mancate. Io non sapevo più veramente come fossero fatti i lineamenti di Gilberte, salvo nei momenti divini in cui lei li dispiegava per me; ricordavo solo il suo sorriso. E, non potendo rivedere quel viso diletto, per quanto mi sforzassi di ricordarmelo, mi irritavo di trovare, disegnati nella mia memoria con un'esattezza definitiva, i visi inutili ed evidenti dell'uomo della giostra e della venditrice di zucchero d'orzo: così chi ha perduto un essere amato che dormendo non rivede mai, si esaspera nell'incontrare incessantemente nei sogni tanta gente insopportabile e che è già troppo aver conosciuta da sveglio. Nella sua impotenza a rappresentarsi l'oggetto del proprio dolore, quasi si accusa di non provare dolore. E io non ero lontano dal credere che, non potendomi rammentare i lineamenti di Gilberte, l'avevo dimenticata, non l'amavo più.
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