da "Il ladro di merendine" - Andrea Camilleri
La porta si spalancò con tale violenza che il commissario fece un salto dalla seggia. Apparve Catarella agitatissimo.
«Domando pirdonanza per la botta, ma la porta mi scappò».
«Se trasi un’altra volta così, ti sparo. Che c’è?».
«C’è che tilifonarono ora ora che c’è uno che si trova dintra un ascensori».
Il calamaio, in bronzo finemente lavorato, mancò la fronte di Catarella, ma il botto che fece contro il legno della porta parse un cannonata. Catarella si rannicchiò, le braccia a proteggersi la testa. Montalbano principiò a pigliare a calci la scrivania. Dintra la càmmara si precipitò Fazio, la mano sulla fondina aperta.
«Che fu? Che successe?».
«Fatti spiegare da questo stronzo cos’è questa storia di uno chiuso in un ascensore. Che si rivolgano ai pompieri. Però portatelo di là, io non lo voglio sentire parlare».
Fazio tornò in un biz.
«Un morto ammazzato dentro un ascensore» fece rapido, essenziale, a scanso di qualche altra tiratina di calamaio.
«Cosentino Giuseppe, guardia giurata» si presentò l’omo vicino al cancello spalancato dell’ascensore. «Trovai io il pòviro signor Lapecora».
«Come mai non c’è nessuno a curiosare?» si meravigliò Fazio.
«Ho rimandato tutti a casa loro. A mia qua m’ubbidiscono. Abito al sesto piano» fece orgogliosa la guardia aggiustandosi la giacca della divisa.
Montalbano si spiò cosa ne sarebbe stato del potere di Giuseppe Cosentino se avesse abitato nello scantinato.
Il defunto signor Lapecora era assittato sul pavimento dell’ascensore, le spalle appoggiate alla parete di fondo. Vicino alla mano destra c’era una bottiglia di Corvo bianco, ancora tappata con la stagnola. Allato alla mano mancina, un cappello grigio chiaro. Il fu signor Lapecora, vestito di tutto punto cravatta compresa, era un sessantino distinto, con gli occhi aperti e lo sguardo stupito, forse per il fatto d’essersi pisciato addosso. Montalbano si chinò, con la punta di un dito sfiorò la macchia scura in mezzo alle gambe del morto: non era piscio, ma sangue. L’ascensore era del tipo di quelli incassati che scorrevano dentro il muro, impossibile vedere le spalle del morto per capire se l’avevano ammazzato di lama o d’arma da foco. Aspirò profondamente, non sentì odore di polvere da sparo, capace che era svaporato.
Doveva avvertire il medico legale.
«Secondo te, il dottor Pasquano è ancora al porto o è tornato a Montelusa?» spiò a Fazio.
«Dev’essere ancora al porto».
«Vallo a chiamare. E se ci sono Jacomuzzi e la banda degli scientifici dillo macari a loro di venire».
Fazio se ne niscì di corsa. Montalbano si rivolse alla guardia giurata la quale, sentendosi interpellare, si mise rispettosamente sull’attenti.
«Riposo» fece stancamente Montalbano.
Il commissario apprese che il palazzo era di sei piani, che c’erano tre appartamenti per piano, tutti abitati.
«Io abito al sesto piano, che è l’ultimo» ci tenne a ribadire Cosentino Giuseppe.
«Era maritato il signor Lapecora?».
«Sissignore. Con Palmisano Antonietta».
«Anche la vedova ha rimandato a casa?».
«Nossignore. La vedova ancora non lo sa d’essere vedova. È partita stamattina presto per andare a trovare sua sorella a Fiacca, datosi che questa sorella non sta tanto bene di salute. Pigliò la corriera delle sei e mezzo».
«Mi scusi, ma lei come le sa tutte queste cose?».
Il sesto piano gli dava macari questo potere, che tutti dovevano dargli conto e ragione di quello che facevano?
«Perché la signora Palmisano Lapecora» spiegò la guardia «Io disse aieri a sira alla mia signora, datosi che le due fìmmine si parlano».
«Hanno figli?».
«Uno. È medico. Ma campa lontano da Vigàta».
«Che mestiere faceva?».
«Il commerciante. Ha lo scagno in Salita Granet numero 28. Ma negli ultimi anni ci andava solamente tre volte la simana, il lunedì, il mercoledì e il venerdì, datosi che gli era passata la gana di travagliare. Aveva messo qualche soldo da parte, non doveva dipendere da nisciuno».
«Lei è una miniera d’oro, signor Cosentino».
La guardia giurata scattò nuovamente nella posizione d’attenti.
In quel momento arrivò una donna sulla cinquantina, le gambe parevano tronchi d’albero. Aveva le mani cariche di sacchetti di plastica stracolmi. «La spisa feci!» proclamò taliando torva il commissario e la guardia giurata.
«Me ne compiaccio» fece Montalbano.
«E io no, vabbeni? Pirchì ora mi devo fari sei piani di scale a piedi. Quanno ve lo portate il morto?».
E fulminati ancora una volta i due, principiò la faticosa salita. Soffiava dalle nasche come un toro infuriato.
«Quella è una fìmmina terribile, signor commissario. Si chiama Pinna Gaetana. Abita nell’appartamento allato al mio e non passa giorno che non attacca lite con la mia signora la quale, datosi che è una vera signora, non ci dà soddisfazione e quella piglia e si mette a fare più catùnio, soprattutto quando devo rifarmi del sonno perso in servizio».
«Domando pirdonanza per la botta, ma la porta mi scappò».
«Se trasi un’altra volta così, ti sparo. Che c’è?».
«C’è che tilifonarono ora ora che c’è uno che si trova dintra un ascensori».
Il calamaio, in bronzo finemente lavorato, mancò la fronte di Catarella, ma il botto che fece contro il legno della porta parse un cannonata. Catarella si rannicchiò, le braccia a proteggersi la testa. Montalbano principiò a pigliare a calci la scrivania. Dintra la càmmara si precipitò Fazio, la mano sulla fondina aperta.
«Che fu? Che successe?».
«Fatti spiegare da questo stronzo cos’è questa storia di uno chiuso in un ascensore. Che si rivolgano ai pompieri. Però portatelo di là, io non lo voglio sentire parlare».
Fazio tornò in un biz.
«Un morto ammazzato dentro un ascensore» fece rapido, essenziale, a scanso di qualche altra tiratina di calamaio.
«Cosentino Giuseppe, guardia giurata» si presentò l’omo vicino al cancello spalancato dell’ascensore. «Trovai io il pòviro signor Lapecora».
«Come mai non c’è nessuno a curiosare?» si meravigliò Fazio.
«Ho rimandato tutti a casa loro. A mia qua m’ubbidiscono. Abito al sesto piano» fece orgogliosa la guardia aggiustandosi la giacca della divisa.
Montalbano si spiò cosa ne sarebbe stato del potere di Giuseppe Cosentino se avesse abitato nello scantinato.
Il defunto signor Lapecora era assittato sul pavimento dell’ascensore, le spalle appoggiate alla parete di fondo. Vicino alla mano destra c’era una bottiglia di Corvo bianco, ancora tappata con la stagnola. Allato alla mano mancina, un cappello grigio chiaro. Il fu signor Lapecora, vestito di tutto punto cravatta compresa, era un sessantino distinto, con gli occhi aperti e lo sguardo stupito, forse per il fatto d’essersi pisciato addosso. Montalbano si chinò, con la punta di un dito sfiorò la macchia scura in mezzo alle gambe del morto: non era piscio, ma sangue. L’ascensore era del tipo di quelli incassati che scorrevano dentro il muro, impossibile vedere le spalle del morto per capire se l’avevano ammazzato di lama o d’arma da foco. Aspirò profondamente, non sentì odore di polvere da sparo, capace che era svaporato.
Doveva avvertire il medico legale.
«Secondo te, il dottor Pasquano è ancora al porto o è tornato a Montelusa?» spiò a Fazio.
«Dev’essere ancora al porto».
«Vallo a chiamare. E se ci sono Jacomuzzi e la banda degli scientifici dillo macari a loro di venire».
Fazio se ne niscì di corsa. Montalbano si rivolse alla guardia giurata la quale, sentendosi interpellare, si mise rispettosamente sull’attenti.
«Riposo» fece stancamente Montalbano.
Il commissario apprese che il palazzo era di sei piani, che c’erano tre appartamenti per piano, tutti abitati.
«Io abito al sesto piano, che è l’ultimo» ci tenne a ribadire Cosentino Giuseppe.
«Era maritato il signor Lapecora?».
«Sissignore. Con Palmisano Antonietta».
«Anche la vedova ha rimandato a casa?».
«Nossignore. La vedova ancora non lo sa d’essere vedova. È partita stamattina presto per andare a trovare sua sorella a Fiacca, datosi che questa sorella non sta tanto bene di salute. Pigliò la corriera delle sei e mezzo».
«Mi scusi, ma lei come le sa tutte queste cose?».
Il sesto piano gli dava macari questo potere, che tutti dovevano dargli conto e ragione di quello che facevano?
«Perché la signora Palmisano Lapecora» spiegò la guardia «Io disse aieri a sira alla mia signora, datosi che le due fìmmine si parlano».
«Hanno figli?».
«Uno. È medico. Ma campa lontano da Vigàta».
«Che mestiere faceva?».
«Il commerciante. Ha lo scagno in Salita Granet numero 28. Ma negli ultimi anni ci andava solamente tre volte la simana, il lunedì, il mercoledì e il venerdì, datosi che gli era passata la gana di travagliare. Aveva messo qualche soldo da parte, non doveva dipendere da nisciuno».
«Lei è una miniera d’oro, signor Cosentino».
La guardia giurata scattò nuovamente nella posizione d’attenti.
In quel momento arrivò una donna sulla cinquantina, le gambe parevano tronchi d’albero. Aveva le mani cariche di sacchetti di plastica stracolmi. «La spisa feci!» proclamò taliando torva il commissario e la guardia giurata.
«Me ne compiaccio» fece Montalbano.
«E io no, vabbeni? Pirchì ora mi devo fari sei piani di scale a piedi. Quanno ve lo portate il morto?».
E fulminati ancora una volta i due, principiò la faticosa salita. Soffiava dalle nasche come un toro infuriato.
«Quella è una fìmmina terribile, signor commissario. Si chiama Pinna Gaetana. Abita nell’appartamento allato al mio e non passa giorno che non attacca lite con la mia signora la quale, datosi che è una vera signora, non ci dà soddisfazione e quella piglia e si mette a fare più catùnio, soprattutto quando devo rifarmi del sonno perso in servizio».
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