I settant’anni
Una Dichiarazione rivoluzionaria che l’Italia
ha tradito
Antonio Marchesi*
Settant’anni fa
l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato la Dichiarazione universale
dei diritti umani. Quella Dichiarazione è, da un punto di vista
storico, una ripartenza dell’umanità, dopo gli orrori della guerra mondiale e
dei campi di sterminio. Da un punto di vista politico e giuridico, è un atto
rivoluzionario, che segna l’inizio di un cambiamento profondo. Per la prima
volta vengono stabilite regole internazionali sul modo in cui deve essere esercitato
il potere di governo nei confronti delle persone (tutte: cittadini e stranieri)
che a quel potere sono sottoposte (che, dunque, non è più illimitato). Il
diritto internazionale classico si occupava di relazioni fra stati, non di ciò
che accadeva all’interno degli stati. I diritti umani, come noi li conosciamo, non
venivano violati, non perché il potere avesse più rispetto per le persone,ma
semplicemente perché non esistevano. Nessuno si aspettava che dall’oggi al
domani tutti i diritti di tutti fossero pienamente rispettati. Quello era ed è
tuttora un obiettivo da perseguire, facendo un cammino che si è rivelato forse più
lungo e accidentato di quanto padri e madri della Dichiarazione s’immaginavano.
Eleanor Roosevelt, che ha presieduto la commissione di saggi che ne ha
elaborato il testo, parlava di uno standard of achievement, una
specie di indicatore, di successo o meno, per le politiche dei governi.
Purtroppo, la Dichiarazione non è mai stata una fonte di ispirazione per
chi ricopre ruoli di leadership e di governance. E nessuno pare averla
utilizzata come guida di cui tenere conto nella formulazione di politiche e
nell’elaborazione di leggi. I diritti umani sono stati e continuano a essere violati
in ogni parte del pianeta. Oggi, però, pare emergere un problema ulteriore. Si
diffonde l’idea secondo la quale i diritti umani non sarebbero diritti di tutti.
Non sarebbero diritti che spettano a ognuno in quanto persona ma privilegi da
meritare, che qualcuno si arroga un potere del tutto arbitrario di attribuire e
di negare. Si tratta ovviamente di uno stravolgimento completo della nozione
stessa di diritti umani, che o sono di tutti – anche di coloro che non ci
assomigliano o non ci piacciono - o non lo sono di nessuno. E di un tradimentodell’art.1
della Dichiarazione, per il quale «ognuno nasce libero e uguale in
dignità e diritti».
L’idea che i diritti
possano spettare ad alcuni e non ad altri, purtroppo, non è soltanto un’idea sbagliata,ma
un’idea produttiva di effetti sulla vita di milioni di persone rientranti,
appunto, fra coloro ai quali i diritti umani non spetterebbero. Dagli
appartenenti alle minoranze etniche (i Rohingya del Myanmar, vittime dell’ultimo
genocidio), agli omosessuali (ancora puniti dal diritto penale di oltre
settanta paesi), alle donne di tanti paesi - dall’India alla Polonia, dal
Sudafrica all’Arabia Saudita - che rivendicano i propri diritti negati, ai
rifugiati in Italia. A questi ultimi, in particolare, una strategia fatta di
collaborazione con la Libia, porti chiusi e attacchi infamanti nei confronti
delle Ong ha negato «il diritto di cercare e godere asilo dalle persecuzioni», di
cui all’art.14 della Dichiarazione. Ottenendo, nella prospettiva del
governo, successi lusinghieri: dal 2017 un crollo nel numero degli sbarchi. Ma
anche – sono i costi umani altissimi, il rovescio della medaglia che la
propaganda non fa vedere - un aumento spaventoso del tasso di mortalità
in mare di coloro che
sono partiti e una crescita enorme di coloro che sono trattenuti nei centri di
detenzione libici, a tempo indeterminato, senza controllo giurisdizionale, in
condizioni agghiaccianti, esposti sistematicamente a torture e a stupri. Di queste
violazioni della Dichiarazione universale, nella ricorrenza del
settantesimo anniversario, l’Italia è complice.
*presidente Amnesty International Italia
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