da "Danza delle ombre felici" - Alice Munro
L’altra donna dell’Esercito della Salvezza, che era più anziana e aveva la pelle unta e giallognola e una voce quasi maschile, diceva: Nel giardino del paradiso i bambini sbocciano come fiori. Dio avrà avuto bisogno di un altro fiore, perciò si è preso il tuo bambino. Dovresti ringraziare il cielo, sorella, ed essere contenta.
Le altre le ascoltavano imbarazzate; a quelle parole sulle loro facce si dipingeva un disagio puerile e solenne. Si davano da fare a servire il tè e a disporre sul tavolo le crostate, i panfrutti e le focacce che la gente aveva mandato o che avevano preparato personalmente.
Nessuno toccava cibo perché Leona si rifiutava di mangiare. Molte delle presenti piangevano, ma non le due dell’Esercito della Salvezza. Allie McGee piangeva. Era una donna robusta, dal volto placido e il seno prosperoso; non aveva figli. Leona raccolse le ginocchia sotto la trapunta e prese a ondeggiare mentre piangeva e ciondolava avanti e indietro la testa (mostrando, come alcune notarono con un senso di vergogna, le righe di sporco nel collo). A un certo punto si acquietò e, in tono quasi sorpreso, disse: L’ho allattato fino a dieci mesi. Era così buono, non ci s’accorgeva di averlo in casa. L’ho sempre detto che era il pià buono dei miei bambini.
Nella cucina buia e surriscaldata la donna percepì la dignità del dolore nelle loro carni di madri; restavano umili di fronte a quella Leona, sporca, sgradita e disperata.
Entrando, gli uomini – il padre, un cugino, un vicino di casa con il carico di legna o con la timidissima richiesta di qualcosa da mangiare – si rendevano subito conto di essere impietosamente esclusi. Uscivano e riferivano agli altri, Eh, si, non hanno ancora finito. E il padre, che intanto si stava un po’ ubriacando, diventava aggressivo perché sentiva che ci si aspettava qualcosa ma che lui non era all’altezza, e non era giusto, e così disse, Sì, possono anche cavarsi gli occhi a furia di piangere, tanto a Benny non serve.
George e Irene stavano giocando a ritagliare figurine dal catalogo. Avevano una famiglia di carta, madre, padre e figli, e gli ritagliavano i vestiti. Patricia li osservava e disse, Ma si può sapere come ritagliate, bambini? Lasciate il bordo bianco tutto attorno! Come pensate di farli stare su, quei vestiti, se non avete nemmeno fatto le linguette. Prese le forbici e cominciò a tagliare di fino, senza bordini bianchi sui margini; teneva il faccino pallido e sveglio piegato da una parte e le labbra serrate. Faceva le cose come un adulto, non tanto
così, per fare. Non si atteggiava a cantante, anche se da grande quello sarebbe stato il suo mestiere, magari nel cinema, oppure alla radio. Adorava sfogliare le riviste di cinema o quelle piene di foto di vestiti e di stanze arredate; le piaceva guardare nelle finestre di certe case del centro.
Benny cercava di arrampicarsi sul divano. Afferrò il catalogo e Irene lo colpì sulla mano. Lui si mise a frignare. Patricia lo prese in braccio con fare efficiente e lo portò alla finestra. Lo sistemò su una poltrona rivolta all’esterno e intanto diceva, Guarda, Benny, bau-bau, c’è il baubau. Era il cane di Mundy che si era alzato con una scrollatina e si era incamminato su per la strada. Bau-bau, ripeté Benny incuriosito, appiccicando le manine piatte sul vetro e sporgendosi per vedere dove andava il cane. Benny aveva diciotto mesi e le uniche due parole che sapeva dire erano bau-bau e Bram. Bram era l’arrotino che ogni tanto veniva nella via; il suo nome vero era Brandon. Benny se lo ricordava e gli correva incontro quando lo vedeva. Altri bambini a soli tredici o quattordici mesi dicevano più parole di Benny e sapevano fare più cose, tipo salutare e battere le mani, e poi erano quasi tutti più carini, da vedere. Benny era lungo, sottile e ossuto e di faccia somigliava al
padre, pallido, vacuo e inespressivo; gli ci mancava solo quel lurido cappellino con la visiera! In compenso era buono, se ne stava per ore a fissare fuori dalla finestra dicendo Bau-bau, bau-bau, ora in tono interrogativo ora con la cantilena, accarezzando i vetri con le mani. Lungo com’era, gli piaceva farsi prendere in braccio come i bambini piccoli; nel lettino guardava in su e sorrideva tra il timido e l’impaurito. Patricia sapeva che Benny era stupido; lei detestava le cose stupide. Benny era l’unica cosa stupida che non detestasse. Gli asciugava il naso con fare pratico e frettoloso, cercava di insegnargli a parlare, di fargli ripetere le parole; gli metteva la faccia vicina vicina e diceva, nervosa, Ciao, Benny, cia-o, e lui la guardava sorridendo in quel suo modo timoroso e tardo. Questo le procurava un senso di sfinita tristezza che la faceva desistere, per tornare a sfogliare una rivista di cinema.
Traduzione di Susanna Basso
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