dipinto di Arsen Kurbanov
da “Il gatto che
aggiustava i cuori” – RachelWells
Come promesso, il
mattino dopo mi sono messo in cammino. Ero abbattuto. Trascorsi altri giorni,
mi sono trovato a vivere una moltitudine di contraddizioni. Un giorno, avevo la
sensazione di non farcela più: il tempo, la fame e la solitudine mi scavavano
dentro. Il giorno dopo, invece, mi davo da
fare per proseguire
dicendomi che avevo un debito nei confronti di Margaret e Agnes e non potevo
cedere. Altalenavo tra il senso d’impotenza e la determinazione a non fallire.
Per
l’approvvigionamento me la cavavo e ho imparato a essere più autonomo. Ho anche
cominciato ad abituarmi alle variazioni climatiche, benché continuassi a odiare
la pioggia. Cacciavo in modo più efficiente, anche se non mi piaceva. Avevo
scoperto il modo di essere un po’ più resistente. Tuttavia non ero del tutto
convinto di possedere le capacità di recupero che mi sarebbero servite. Non
ancora.
Una notte in cui mi
sentivo in una disposizione d’animo più positiva mi sono imbattuto in un gruppo
di umani. Erano tutti raggruppati intorno a un grande ingresso; c’era una
catasta di cartoni e una gran puzza. Tenevano tutti una bottiglia in mano e
alcuni avevano la faccia pelosa quasi quanto la mia.
«È un gatto», ha
farfugliato uno degli uomini coperti di pelo bevendo un sorso. Ha agitato la
bottiglia verso di me; il fetore mi ha fatto barcollare. Si sono messi a ridere
e ho cominciato lentamente ad arretrare, incerto sul genere di pericolo che mi
trovavo di fronte, se di pericolo si poteva parlare.
Poi l’uomo che rideva
mi ha scagliato contro una bottiglia, l’ho schivata, ma giusto nel momento in
cui si frantumava accanto a me.
«Ci farei un bel
cappello per tenermi caldo», ha riso un altro in tono leggermente minaccioso, o
così mi è sembrato.
Strisciando, sono
indietreggiato un po’ di più.
«Non abbiamo niente
da mangiare, levati dalle palle», ha detto un terzo in tono duro.
«Possiamo cavargli la
pelle e farci un cappello e poi mangiarci il resto», ha detto un altro ridendo.
Ho spalancato gli
occhi per l’orrore e sono arretrato. Allora, spuntato dal nulla, è apparso un
gatto.
«Seguimi», ha
sibilato. Così l’ho rincorso lungo la strada. Per fortuna, proprio mentre
pensavo di non farcela più, ci siamo fermati.
«Chi erano?» ho
domandato senza fiato.
«Ubriachi del
quartiere. Non hanno una casa. Devi tenerti alla larga da loro.»
«Non ce l’ho nemmeno
io una casa», ho esclamato e mi è venuta voglia di gnaulare di nuovo.
«Mi dispiace sentirtelo
dire. Devi stare lontano da loro, comunque. Non sono amichevoli.»
«Che cos’è un
ubriaco?» ho chiesto, e mi sono sentito come un micetto sprovveduto che non si
è ancora fatto un’idea del mondo.
«È una cosa che fanno
gli umani. Bevono della roba che li cambia. Non è né latte né acqua. Senti,
vieni con me. Stanotte posso portarti di nascosto da mangiare e un po’ di latte
e posso trovarti un posto sicuro per dormire.»
«Sei molto gentile»,
ho fatto le fusa.
«Mi sono trovato
nelle tue stesse condizioni: per un po’ sono stato un senzatetto», ha detto il
gatto, e poi si è allontanato tutto impettito facendomi segno con la zampa di
seguirlo.
Si chiamava Bottone,
a suo parere un nome ridicolo per un gatto, ma aveva una padroncina secondo cui
era «carino come un bottone», qualunque cosa volesse dire. La casa in cui siamo
andati era immersa nel buio e mi sono sentito così felice di trovarmi al
chiuso, al caldo e al sicuro. Mi ha ricordato quanto fosse disperato il mio
bisogno di trovare in fretta una casa. Ho raccontato a Bottone la mia storia.
«È triste», ha detto,
«ma, come me, hai imparato che un solo padrone non sempre basta. Qualche volta
faccio visita a un’altra casa della mia strada.»
«Davvero?» ho detto,
interessato.
«Mi considero un
gatto dei portoni», ha detto.
«Che cosa sarebbe?»
ero curioso.
«Be’, vivi per la
maggior parte del tempo in un posto, ma vai a piazzarti davanti ad altri
portoni finché non ti fanno entrare. Non sempre te lo permettono, ma in questo
modo è come avere una seconda casa, anche se non ci vivi. Se succedesse
qualcosa, hai un’altra possibilità.»
Ho continuato a
fargli domande e ha proseguito spiegandomi che un gatto dei portoni viene
nutrito svariate volte, da famiglie diverse, viene coccolato e riempito di
attenzioni e gode di un alto grado di sicurezza. Come me, aveva trovato
detestabile la condizione di senzatetto; diversamente dal mio caso, la bambina
era venuta in suo soccorso anche se, a suo dire, era stato lui a manovrare le
cose affinché andassero così. Quando aveva trovato la sua nuova famiglia, aveva
assunto l’aspetto più inerme possibile, per essere sicuro che s’impietosissero
e lo adottassero.
«Vuoi dire che avevi
soltanto l’aria di uno che ha bisogno di essere nutrito e lisciato?» ho
chiesto, con le orecchie drizzate per l’interesse.
«Be’, a dir la
verità, il mio aspetto era proprio quello. Ma, sai, sono stato fortunato, ho
implorato aiuto e qualcuno mi ha fatto entrare. Ti do una mano, se vuoi.»
«Ah, mi piacerebbe
tanto», ho replicato.
Ha lasciato che mi
raggomitolassi accanto a lui nel suo cestino e abbiamo parlato fino a notte
fonda. E benché non potessi dormire a lungo, visto che il mattino dopo avrei
dovuto andarmene di buon’ora, prima che i padroni di Bottone si svegliassero,
per la prima volta da quando avevo lasciato la casa di Margaret mi sono sentito
al sicuro. Inoltre, un piano stava prendendo forma nella mia mente: sarei stato
un fantastico gatto dei portoni.
Traduzione
di Elisabetta Valdrè
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