Georg Flegel -Natura morta biscotti dolci
da La torre
– Storia di una moderna Atlantide - Uwe Tellkamp
(…)
Lange e
Stahl si sfregarono le mani, impazienti e si leccarono le labbra. Il tè, il
caffè, e il cacao appena fatto profumavano; c’erano marmellata di meta cotogna
e d ciliegie, mousse di prugne e miele di bosco e vicino al vassoio dei panini,
coperto con un fazzoletto, c’era un piatto con una specialità di Libussa: una
specie di pasta compatta di albicocche secche tagliata a fettine sottili.
Christian, che sbirciava di continuo in direzione del piatto incontrando spesso
il ghigno di Stahl, che sedeva molto più vicino di lui a questa leccornia,
pensava che stimolasse la crescita e lo sviluppo decisamente più del latte
caldo. Libussa e suo marito giunsero le mani in preghiera “Siediti alla nostra
mensa, Signore, e benedici i doni che ci hai dato”. Radio Dresda trasmetteva
una poesia di un meritevole combattente e alto funzionario dell’associazione
degli intellettuali. Meno ascoltava con una smorfia di sofferenza sul volto,
mentre gli altri, anche Christian, si servivano impassibili. Parlava di ideali,
di un futuro luminoso, di Lenin e Marx, e di atti eroici nei cantieri del
domani, della creazione del comunismo e “di te, compagno, che siedi quieto a
colazione, /libero dai crucci di coloro, / che sono di guardia!”. Stahl, che si
stava aprendo un panino, s’interruppe. “Di’ un po’ Meno, devi leggere tutti i
giorni roba simile? ‘Tu che siedi quieto a colazione...’” (...)
Christian
capì che il momento era favorevole e infilzò con la forchetta due fettine di
dolce alle albicocche.
“Questo è
ciò che ascoltano volentieri a Bisanzio. Se fosse per loro gli scrittori
dovrebbero scrivere solo roba del genere.”
“Devono
proprio trasmetterla? Tot versi al mese per i funzionari che fanno
pacificamente colazione? Non potrebbero,” Stahl si guardò intorno, cercando,
“mettere in versi qualcosa di quotidiano”. (...) Meno rise, afferrò una
rosetta, l’osservò un momento, con un lampo beffardo negli occhi. Si alzò,
protese il panino davanti a sé con un gesto teatrale:
È te,
schietta rosetta di Dresda, che voglio cantare,
tu che
rigogliosa e paffuta reclami una fame insaziabile,
vieni e
dimmi, arrivi forse dallo spaccio elisio,
t’ha forse
raschiata dalla teglia statale il fornaio Nopper,
o forse
provieni con sentimento dall’infarinata bottega di Wachendorf,
o dalle
ceste già imbronciate di primo mattino di Walther o del panettiere Georg?
Oh su,
evento pastoso di Dresda, parla,
come
dovrebbe chiamarti la bocca cupida e vorace del tuo cantore,
che con
labbra ingorde compone per te un’avida canzone?
Orgogliosa
ed elastica come... un seno di fanciulla? Invogli all’assaggio,
ma soltanto
di quel che mi vorrai concedere,
dove invece
il cantore, come un cane affamato, desidera affondare il suoi denti
ululando e
sbranando con fauci animali,
cospicui
brandelli dai tuoi fantastici fianchi. Oh, ma come!
Quale nome
posso darti, tu, viola cotta al forno,
delizia del
palato, dattero vaporoso, cornamusa di Dresda,
cupola da
sbaciucchiare e baciata dall’arte,
come puoi
sopportare in silenzio quel caldo infernale
oh rosetta
capolavoro del genio sassone?
(…)
traduzione
di Francesca Gabelli, Bompiani, 2010
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