opera di Fabian Perez
da Storia di O - Pauline Réage
(…)
Da due settimane, O
era costantemente equipaggiata, e non si abituava ad esserlo, quando una sera
al ritorno dal suo studio trovò un biglietto del suo amante che la pregava di
essere pronta alle otto per andare a cena con lui e un suo amico. Una vettura
sarebbe passata a prenderla, l'autista sarebbe salito a chiamarla. Il poscritto
precisava che avrebbe dovuto prendere la giacca di pelliccia, vestirsi
completamente di nero (completamente era sottolineato) e aver cura di truccarsi
e profumarsi come a Roissy. Erano le sei. Completamente in nero, e per la cena; ed era
la metà di dicembre, faceva freddo, ciò voleva dire calze di seta nere, guanti
neri, e con la gonna plissettata a ventaglio, un maglione pesante ornato di
lustrini, o il suo giubbino di faglia. Scelse il giubbino di faglia. Era
imbottito e trapuntato a larghe cuciture, disegnato e allacciato dal collo alla
vita come le attillate giubbe da uomo del sedicesimo secolo, e se si adattava
così perfettamente al petto era perché il reggiseno era fissato al suo interno.
Era foderato della stessa faglia, e le sue falde dentate si arrestavano alle
anche. Gli unici elementi chiari erano i grandi ganci
dorati, simili a
quelli che si vedono alle scarpette da neve dei bambini: che si aprono e si
chiudono con un rumore secco, su larghi anelli piatti. Nulla parve più strano
ad O, dopo aver disposto i propri abiti sul letto, e ai piedi del letto le
scarpette di daino dai tacchi a spillo, che vedersi, libera e sola nella stanza
da bagno, meticolosamente occupata, dopo il bagno, a truccarsi, a profumarsi,
come a Roissy. I cosmetici che possedeva non erano quelli che usava a Roissy.
Nel cassetto della toletta, trovò del belletto per le guance - non se ne
serviva mai - con cui si sottolineò l'areola dei seni. Era un belletto a malapena
visibile quando veniva applicato, ma che poco dopo si scuriva. Dapprima credette
di averne messo troppo, lo cancellò leggermente con l'alcool - era molto
difficile toglierlo - e cominciò da capo: un rosso scuro peonia fiorì sulla
punta dei suoi seni. Cercò invano di usarlo per dipingersi le labbra nascoste
dal vello del grembo, ma su di esse non lasciò nessun segno. Finalmente trovò,
fra gli astucci di rosso per labbra che aveva nello stesso cassetto, uno di
quei rossetti a prova di baci di cui non amava servirsi perché erano troppo
secchi, e troppo
indelebili. Aderì. Si preparò i capelli, il volto, e alla fine si profumò. René
le aveva dato, contenuto in un vaporizzatore che lo proiettava in una fitta
nebbia, un profumo di cui ignorava il nome, ma che sapeva di legno secco e di
piante palustri, dagli aromi pungenti e un po' selvaggi. Sulla sua pelle, la
nebbia si condensava e colava, sui peli delle ascelle e del grembo si fissava
in goccioline minuscole. O aveva imparato a Roissy la lentezza: si profumò tre
volte lasciando ogni volta il profumo asciugarsi su di lei. Si mise prima le
calze e le scarpe dai tacchi alti, poi la gonna, poi il giubbino. S'infilò i
guanti, prese la borsetta. Nella borsetta aveva la scatola della cipria,
l'astuccio di rossetto, un pettine, la chiave, mille franchi. Indossati i
guanti, tolse dall'armadio la pelliccia, e guardò l'ora sul comodino accanto al
letto: erano le otto meno un quarto. Si sedette di sbieco sull'orlo del letto,
e con gli occhi fissi sulla sveglia attese senza muoversi il suono del campanello.
Quando alla fine squillò e lei si alzò per andare, notò nello specchio della
toletta, prima di spegnere la luce, il proprio sguardo ardito, dolce e docile.
Quando spinse la
porta del piccolo ristorante italiano davanti al quale l'automobile si era
fermata, la prima persona che vide, al bar, fu René. Le sorrise teneramente, le
prese la mano, e volgendosi verso una specie d'atleta dai capelli grigi le
presentò, in inglese, Sir Stephen. A O fu offerto uno sgabello fra i due
uomini, e mentre stava per sedersi René le disse a mezza voce di fare
attenzione a non sciuparsi il vestito. L'aiutò a far scivolare la gonna oltre
l'orlo dello sgabello, di cui lei sentì il cuoio freddo sulla pelle e il bordo
guarnito di metallo contro l'incavo delle cosce, perché non osò sedersi subito
più che per metà, nel timore di cedere alla tentazione di accavallare le gambe.
La gonna si allargava intorno a lei. Il suo tallone destro era aggrappato a una
traversa dello sgabello, la punta del piede sinistro toccava terra.
L'inglese, che le
aveva rivolto un breve inchino senza proferir parola, non le aveva tolto gli
occhi di dosso: O si rese conto che le guardava le ginocchia, le mani e alla
fine le labbra, ma con tale calma, e con un'attenzione così precisa e sicura
che O si sentì soppesata e misurata come lo strumento che ben sapeva di essere;
fu come costretta dal suo sguardo e, per così dire, suo malgrado che si sfilò i
guanti: sapeva che egli avrebbe parlato quando lei avrebbe avuto le mani nude,
perché le sue mani erano singolari, e assomigliavano alle mani di un ragazzino
piuttosto che alle mani di una donna, e perché portava all'anulare sinistro
l'anello di ferro dalla triplice spirale d'oro. Invece no, sorrise: aveva visto
l'anello. René beveva un Martini, Sir Stephen un whisky. Finì lentamente il suo
whisky, poi attese che René avesse bevuto il suo secondo Martini e O il succo
di pompelmo che René le aveva ordinato, e spiegò frattanto che se O fosse stata
gentilmente d'accordo avrebbero potuto cenare nella sala sotterranea, più
piccola e tranquilla di quella, al pianterreno, che era semplicemente un
prolungamento del bar. - Ma certo - disse O, già raccogliendo la borsetta e i
guanti che aveva posato sul banco. Allora, per aiutarla a lasciare lo sgabello,
Sir Stephen le tese la mano destra, in cui essa mise la sua, rivolgendole
finalmente la parola in modo diretto per dirle che aveva delle mani fatte
apposta per portare dei ferri, tanto il ferro le stava bene. Ma dette in
inglese, le sue parole recavano una traccia di ambiguità, e davano adito al dubbio
se si trattasse soltanto di metallo o anche, o soprattutto, di catene.
Nella sala
sotterranea, che era una semplice cantina imbiancata a calce ma fresca e gaia,
c'erano in realtà solo quattro tavoli, uno solo dei quali era occupato da
clienti che stavano finendo di cenare. Sulla parete era stata dipinta, a mo' di
affresco, una mappa gastronomica dell'Italia, di colori teneri come quelli dei
gelati alla vaniglia, al lampone, al pistacchio; questo fece pensare a O che
alla fine della cena avrebbe ordinato un gelato, con mandorle sgusciate e panna
fresca. Perché si sentiva felice e leggera, sotto il tavolo il
ginocchio di René
toccava il suo, e quando lui parlava, sapeva che parlava per lei. Anche lui le
guardava le labbra. Le fu permesso il gelato, ma non il caffè.
Sir Stephen invitò O
e René a prendere il caffè a casa sua. Tutti e tre cenarono molto leggermente,
e O si era resa conto che avevano badato a bere pochissimo, e a lasciarla bere
ancor meno: mezzo litro di Chianti in tre. Avevano anche cenato molto in
fretta: erano appena le nove. - Ho mandato via l'autista - disse Sir Stephen -
mi faccia il favore di guidare lei, René; la cosa più semplice sarebbe di andare
direttamente a casa mia. - René prese il volante, O si sedette accanto a lui,
Sir Stephen a fianco di lei. La vettura era una grande Buick, c'era spazio
sufficiente per tre persone sul sedile anteriore.
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