opera di Jack Vettriano
Da
“Uomini nudi” – Alicia Giménez-Bartlett
(…)
Ho sete, molta sete,
e mi sveglio. È buio, credo di essere sola ma non è così. Si accende la luce
nel corridoio e vedo Javier che esce dalla stanza, è nudo. Torna con un
bicchiere d’acqua. Mi aiuta a tirarmi su, bevo.
“Stai bene?” mi
chiede.
“Sì, sto bene”.
“Ivàn se n’è andato”.
Lui è rimasto,
purtroppo. Ho bisogno di sentirmi sola, di riposare, di rivivere l’esperienza
che ho vissuto poco fa.
“Non sarebbe meglio
se tu tornassi domani, Javier?”.
“È tardissimo. Non
posso rimanere a dormire con te?”.
“Sono veramente
stanca”.
“Credevo che ti
andasse di stancarti ancora un po’”.
Mi accarezza tra le
gambe, mi bacia. È come i cani, vuole marcare il territorio per ultimo, coprire
le tracce del cane che è passato prima di lui, rivendicare il suo diritto di
proprietà. Mi copro col lenzuolo.
“No, per favore”.
“Tesoro…”:
“Lasciami stare,
Javier, te ne prego”.
“Va bene, non
preoccuparti. Non ti disturbo. Rimango nella mia parte di letto, fermo come un
monaco”.
“Ti chiederei di
lasciarmi sola, di andartene a casa tua. Ti chiamo”.
“Ma Irene, se
dobbiamo cominciare una nuova vita, che cosa te ne importa se rimango a
dormire? Non ti disturberò e domani, quando ci svegliamo, sarò già qui”.
Mi alzo a piedi nudi,
vado nell’ingresso. Apro il cassetto dove tengo il doppione delle chiavi. Lo prendo e glielo infilo in una tasca dei
jeans, che sono ancora buttati a terra nel salone. Vedo che lui mi segue e mi
osserva stupefatto.
“Ecco. Adesso hai le
chiavi di casa. Sei contento? Domani puoi venire a fare colazione, puoi anche
portare giù la spazzatura se ti va. Ti senti più realizzato così? Già inserito
nella nuova vita? Adesso però ti prego di andartene”.
“Non capisco questo
atteggiamento, Irene. Ne avevamo parlato”.
La vedo nella
penombra, è nuda. Ha i capelli arruffati e due macchie nere di trucco sfatto
intorno agli occhi. La sua espressione si trasforma in una smorfia di rabbia
assoluta, esplosiva. Mi grida:
“Di cosa abbiamo
parlato, Javier? Di cosa? Parlare con te non serve a niente! Tu non raccogli,
non ascolti, rimani sempre con la tua cazzo di idea fissa nella testa. Non te
ne importa niente degli altri, tu ti fabbrichi la tua realtà parallela e ci
vivi dentro, tranquillo e beato. Non ti guardi nemmeno allo specchio! Per
questo fai delle figure di merda e non te ne accorgi nemmeno”.
“Ma com’è che mi
rovesci addosso tutto questo, Irene? C’è qualcosa che ti disturba? Qualcosa che
ho fatto o detto…?”.
“Tu mi disturbi, tu!
Sempre a fare progetti per una nuova vita, sempre a cercare di redimermi come
un missionario! Ma non te lo ricordi chi sei, che mestiere fai, come ci siamo
conosciuti, che cosa abbiamo fatto con il tuo amichetto poco fa?”.
Davvero, non sapevo
come organizzare nella mente quello che stavo sentendo. Mi sono imposto
nonostante tutto di non perdere la calma. Irene era in uno stato di alterazione
indicibile. Dopo il sesso a tre, dopo il piacere, evidentemente montavano
dentro di lei il senso di colpa, la vergogna, la rabbia contro se stessa, tutte
emozioni delle quali pensava di essersi liberata.
“sai cosa penso,
Irene? Penso che dovremmo prenderci una tisana e rasserenarci un po’. Dopo sarà
meglio che non dormiamo insieme. Me ne vado a casa”.
Temo che si scateni
una nuova ondata di improperi, ma non lo fa. Va in bagno e si mette un
accappatoio, poi si dirige verso la cucina e la seguo. Vedo che mette a bollire
dell’acqua e prepara una teiera. La burrasca è passata. Vado a vestirmi. Che io
sia nudo in questa situazione rende le cose più difficili.
Ritorno e lei è lì,
seduta al tavolo della cucina. Avvolta nell’accappatoio di spugna, con i
capelli in disordine e una tazza fumante tra le mani, sembra una massaia appena
alzata. Le sorrido. Mi siedo di fronte a lei, dove è già pronta la tazza per
me.
“Stai meglio?”
azzardo.
Non mi risponde. Mi
guarda senza espressione, ma sembra aver esorcizzato i suoi demoni. Appare
tranquilla.
“sai, Irene, io penso
che questo tipo di esperienze sessuali estreme abbiano sempre qualcosa di
traumatico. Io stesso sono rimasto un po’ scosso. Finché dura l’effervescenza
del desiderio va tutto bene, ma poi…”.
Mi interrompe con una
risata. Non so cosa pensare. Riprende a bere in silenzio. Ha di nuovo la faccia
dura. Provo un timore indefinito. Mi alzo e la bacio sulla fronte. Le dico:
“Ti chiamo domani. Se
hai bisogno, cercami in qualunque momento”.
Mi sto allontanando
quando sento la sua voce “Javier!”. Mi volto e vedo il suo sorriso enigmatico.
“Non ti hanno preso
per quel lavoro”.
Faccio fatica a
capire il senso delle parole. Poi capisco.
“Da quando lo sai?”
“Non vuoi sapere
perché non ti hanno preso?”.
Ritorno al tavolo e
la guardo.
“Avanti, dimmelo”.
“Ha chiamato il mio
amico. Non corrispondi al profilo. È un modo gentile per dire che non sei
all’altezza. Gli ho chiesto spiegazioni, era dispiaciuto e mi ha detto: Che
cosa vuoi che ce ne facciamo, Irene, di un professore di liceo?”.
“Da quando lo sai?”.
“Da ieri. Ma non era
il caso di rovinare la festa di oggi, non ti pare?”.
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