6 agosto 2018

da “Il birraio di Preston” – Andrea Camilleri

dipinto di Charles Levier 
da “Il birraio di Preston” – Andrea Camilleri

(…)
Ed eccolo davanti a tutti mbriaco come una signa. Altro che straparlare, stava dando i nummari come la sibilla cumana. Sicuramente si era sgallumata qualche bottiglia che teneva ammucciata nei sacchettoni del mantello che si era messo sopra prima di nèsciri di casa, e l’aveva fatto quando gli aveva domandato il primisso di andare nel retrè, pochi minuti prima di accumenzari la conferenza. Pieno di vino come doveva essere sempre, gli era bastato e superchiato sentire solo u sciauro del tappo per partirsene.
«E dunque, dunque e dunque. Questo Luigi Ricci se ne nasce bello bello a Napoli in pieno càvudo, vale a dire nella mesata di luglio del milleottocentocinque. E come se non bastassero le disgrazie che solitamente patiscono i napoletani, quattro anni dopo nasce magari suo fratello Federico, che farà musica puro lui.
«Ma c’è una cosa importante da dire, statemi tutti a sentire, cristo, ma si può sapere perché ridete? Io vi caccio fuori dalla classe, capito? Dunque. Padre di loro era uno che si chiamava Pietro, non era però napoletano, ma fiorentino di nascita, non so se sto spiegandomi bene, fiorentino come una persona di nostra conoscenza, anzi una personalità, e suonava il pianoforte come lo sanno suonare tutti, per esempio la mia signora. Acqua frisca, mi spiego? Ma siccome la mia signora è bella tutti stanno a dirle che suona come un angelo, mentre, a mio sapere, gli angeli suonano clarine e tube, mai pianoforti. A proposito, c’è qualcuno tra i presenti che possa vendermi un pianoforte usato ma bono? Quello che la mia signora mi aveva fatto accattare s’è sfasciato mentre facevamo il trasloco, da Bicari, dove insegnavo latino, a Fela. Un pianoforte magari non di
gran marca, purché soni, tanto per quello che deve sonare… Che andavo dicendo? Che cristo stavo dicendo? Ah, stavo parlando di Luigi Ricci. Bene, studiò musica, si mise a fare composizione. Le prime minchiate, chiedo scusa, m’è scappato, che scrisse ebbero, vai poi a sapere perché, grande successo. Tutti i teatri lo vollero, da Roma a Napoli a Parma a Torino a Milano. E lui, siccome non ce la faceva a stare appresso a tutte le musiche che gli domandavano, pigliò a scopiazzare di qua e di là, come fanno certi miei scolari. Ce n’è uno che pare insegnato dal diavolo. Quando io detto un tema di composizione latina, lui che fa? Si mette… Dove si mette? E poi che c’entra questo? Ah, Ricci Luigi. Comunque a Ricci le mani gliele battevano e lui non perdeva tempo, scriveva, copiava e si curcava con tutte le cantanti che gli venivano a tiro. A Trieste fece accanuscenza con tre fìmmine di Boemia, no, detta accussì pare una cosa di vìtro, di cristallo, no, meglio dire della, ecco, tre fìmmini della Boemia che erano soro e che facevano Stolz di cognome. Ludmilla, Francesca e Teresa, erano. L’ultima, Teresa, è quella stessa angelica, questa volta sul serio, intreppete delle opere di Verdi, il cigno di Busseto. E pare che questa Teresa assai spesso per il cigno si sia cangiata in Leda. Ah ah ah! Mi spiegai? Perché non ridete? Non sapete la storia di Leda e il cigno? No? E io non ve la conto, gnoranti. Andiamo avanti, anzi indietro. Con Ludmilla e Francesca Luigi Ricci cominciò a inzupparci il pane. Magari con Teresa pare che ce lo abbia inzuppato, ma solo quando non trovava le altre due tazze a portata di mano. Ah, ah. Tra Ludmilla e Francesca Luigino non sapeva quale scegliere e il dubbio se lo mangiava vivo quando la notte stava in mezzo alle due fìmmine e per non fare scortesia equamente all’una e all’altra si prestava. Finì che si maritò con Ludmilla e fece un figlio con Francesca. Succede. Non ci credete? Vi giuro che una cosa intifica è capitata para para, una stampa e una figura, a un mio amico che vedo assittato in sala allato alla sua degna signora. Aveva due fìmmini, mi confidò: con una parlava e con l’altra faceva la cosa. Fece una figlia con quella con la quale se ne stava a parlare. Ora io domando e dico: con che cosa parlava il mio amico?».
Il mediatore Patanè, che stava in quarta fila, immediatamente riconoscendosi nelle parole del preside, ebbe un tale spavento da concretizzarsi in una specie di botta alla vucca dello stomaco. Si piegò in due.
«Ti senti male?» gli spiò preoccupata la moglieri.
«Nenti, nenti, tanticchia d’àcito. Il capretto mi restò sullo stomaco» rispose il mediatore augurandosi che un terremoto, una tromba d’aria, un qualsivoglia cataclisma impedisse a Carnazza di andare avanti nel discorso. Ma il vino, nelle vene e quindi nella testa del preside, seguiva un percorso imprevedibile. Il nome dell’amico, Carnazza non lo fece.
(...)

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