dipinto di Charles Levier
da “Il birraio di
Preston” – Andrea Camilleri
(…)
Ed eccolo davanti a
tutti mbriaco come una signa. Altro che straparlare, stava dando i nummari come
la sibilla cumana. Sicuramente si era sgallumata qualche bottiglia che teneva
ammucciata nei sacchettoni del mantello che si era messo sopra prima di nèsciri
di casa, e l’aveva fatto quando gli aveva domandato il primisso di andare nel
retrè, pochi minuti prima di accumenzari la conferenza. Pieno di vino come
doveva essere sempre, gli era bastato e superchiato sentire solo u sciauro del
tappo per partirsene.
«E dunque, dunque e
dunque. Questo Luigi Ricci se ne nasce bello bello a Napoli in pieno càvudo,
vale a dire nella mesata di luglio del milleottocentocinque. E come se non
bastassero le disgrazie che solitamente patiscono i napoletani, quattro anni
dopo nasce magari suo fratello Federico, che farà musica puro lui.
«Ma c’è una cosa
importante da dire, statemi tutti a sentire, cristo, ma si può sapere perché
ridete? Io vi caccio fuori dalla classe, capito? Dunque. Padre di loro era uno
che si chiamava Pietro, non era però napoletano, ma fiorentino di nascita, non
so se sto spiegandomi bene, fiorentino come una persona di nostra conoscenza,
anzi una personalità, e suonava il pianoforte come lo sanno suonare tutti, per
esempio la mia signora. Acqua frisca, mi spiego? Ma siccome la mia signora è
bella tutti stanno a dirle che suona come un angelo, mentre, a mio sapere, gli
angeli suonano clarine e tube, mai pianoforti. A proposito, c’è qualcuno tra i
presenti che possa vendermi un pianoforte usato ma bono? Quello che la mia
signora mi aveva fatto accattare s’è sfasciato mentre facevamo il trasloco, da
Bicari, dove insegnavo latino, a Fela. Un pianoforte magari non di
gran marca, purché
soni, tanto per quello che deve sonare… Che andavo dicendo? Che cristo stavo
dicendo? Ah, stavo parlando di Luigi Ricci. Bene, studiò musica, si mise a fare
composizione. Le prime minchiate, chiedo scusa, m’è scappato, che scrisse
ebbero, vai poi a sapere perché, grande successo. Tutti i teatri lo vollero, da
Roma a Napoli a Parma a Torino a Milano. E lui, siccome non ce la faceva a stare
appresso a tutte le musiche che gli domandavano, pigliò a scopiazzare di qua e
di là, come fanno certi miei scolari. Ce n’è uno che pare insegnato dal
diavolo. Quando io detto un tema di composizione latina, lui che fa? Si mette…
Dove si mette? E poi che c’entra questo? Ah, Ricci Luigi. Comunque a Ricci le
mani gliele battevano e lui non perdeva tempo, scriveva, copiava e si curcava
con tutte le cantanti che gli venivano a tiro. A Trieste fece accanuscenza con
tre fìmmine di Boemia, no, detta accussì pare una cosa di vìtro, di cristallo,
no, meglio dire della, ecco, tre fìmmini della Boemia che erano soro e che
facevano Stolz di cognome. Ludmilla, Francesca e Teresa, erano. L’ultima,
Teresa, è quella stessa angelica, questa volta sul serio, intreppete delle
opere di Verdi, il cigno di Busseto. E pare che questa Teresa assai spesso per
il cigno si sia cangiata in Leda. Ah ah ah! Mi spiegai? Perché non ridete? Non
sapete la storia di Leda e il cigno? No? E io non ve la conto, gnoranti.
Andiamo avanti, anzi indietro. Con Ludmilla e Francesca Luigi Ricci cominciò a
inzupparci il pane. Magari con Teresa pare che ce lo abbia inzuppato, ma solo quando
non trovava le altre due tazze a portata di mano. Ah, ah. Tra Ludmilla e
Francesca Luigino non sapeva quale scegliere e il dubbio se lo mangiava vivo
quando la notte stava in mezzo alle due fìmmine e per non fare scortesia
equamente all’una e all’altra si prestava. Finì che si maritò con Ludmilla e
fece un figlio con Francesca. Succede. Non ci credete? Vi giuro che una cosa
intifica è capitata para para, una stampa e una figura, a un mio amico che vedo
assittato in sala allato alla sua degna signora. Aveva due fìmmini, mi confidò:
con una parlava e con l’altra faceva la cosa. Fece una figlia con quella con la
quale se ne stava a parlare. Ora io domando e dico: con che cosa parlava il mio
amico?».
Il mediatore Patanè,
che stava in quarta fila, immediatamente riconoscendosi nelle parole del
preside, ebbe un tale spavento da concretizzarsi in una specie di botta alla
vucca dello stomaco. Si piegò in due.
«Ti senti male?» gli
spiò preoccupata la moglieri.
«Nenti, nenti,
tanticchia d’àcito. Il capretto mi restò sullo stomaco» rispose il mediatore
augurandosi che un terremoto, una tromba d’aria, un qualsivoglia cataclisma
impedisse a Carnazza di andare avanti nel discorso. Ma il vino, nelle vene e
quindi nella testa del preside, seguiva un percorso imprevedibile. Il nome dell’amico,
Carnazza non lo fece.
(...)
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