Vincent Van Gogh - Cesto di mele, dttaglio
da Nel giardino del
diavolo - Stewart Lee Allen
(…)
È noto che i cristiani ribattezzavano le divinità pagane
per godere del loro influsso positivo, ma questo non sembra essere un tipico
caso di assimilazione, poiché i romani capovolsero tutti i miti esistenti e le
credenze attinenti alla mela. I celti ritenevano che la mela contenesse
l’essenza del sapere divino, e che mangiandone si venisse trasportati in una
sorta di paradiso. Il mito cristiano, invece, stabiliva chiaramente che il sapere
ispirato dalla mela conduceva direttamente all’Inferno.
Altro che assimilazione; si trattava di un attacco vero e
proprio, e così efficace che i cristiani adoperarono lo stesso stratagemma
mille anni dopo nel Nuovo Mondo. Le popolazioni azteche del Messico ritenevano
che l’uomo fosse vissuto un tempo in una specie di Paradiso terrestre dove ci
si nutriva di fiori. Nell’originale mito azteco si credeva che il fiore dello xochitlicacan
avesse la capacità di instillare il sapere divino, nel senso più positivo
del termine, al pari della mela nella mitologia celtica. Quando i missionari
spagnoli arrivarono in Messico nel Cinquecento, cominciarono a sopprimere tutte
le antiche credenze azteche e a diffondere una nuova versione della cacciata
dell’uomo dal Paradiso terrestre, in cui la mela veniva sostituita dal fiore.
Secondo testimonianze indigene dell’epoca, fu la distruzione di quei fiori
sacri, spesso usati per la preparazione di bevande rituali, a infliggere un
colpo mortale alla loro cultura.
I cristiani del Medioevo, e in particolar modo un
personaggio come Avito, prendevano molto seriamente i loro simboli, ma non
erano consapevoli delle loro ripercussioni. Il poema di Avito, La caduta
dell’uomo, fu tra le prime drammatizzazioni della Bibbia ad ampia diffusione,
ed ebbe un tale successo tra la gente comune da guadagnare all’autore il
soprannome di “Virgilio dei cristiani”. Poiché Avito viveva nel profondo nord celtico,
sapeva bene quali associazioni la parola pomum avrebbe indotto. A dire
il vero i cristiani erano talmente preoccupati per l’ascendente che la mela
esercitava sull’immaginario popolare celtico, da creare una serie di bizzarre
allegorie, che narravano come i poteri della mela filtrassero direttamente nel
corpo di Cristo. In queste storie, create probabilmente intorno all’VIII
secolo, si immaginava che Cristo venisse crocifisso a un melo. Allo stesso
albero veniva inchiodata una “mela selvatica”, rappresentante la fede celtica, e
il suo succo veniva fatto scorrere lentamente nel corpo del Messia. L’epilogo
della storia vedeva il corpo di Cristo lasciare l’albero sotto forma di
spirito. (Questo tipo di propaganda era abbastanza diffuso, e infatti alcuni
studiosi islamici ripeterono la storia, circa cinquecento anni dopo, associando
l’uva, propria del cattolicesimo, al frutto della conoscenza proibita.)
La diffamazione di cui fu oggetto la mela da parte del cristianesimo
non ne fece diminuire il consumo, ma servì a mettere in guardia i nuovi
convertiti, nell’Europa settentrionale, dai pericoli delle dottrine eretiche.
Da allora, ogni contadino che sgranocchiava una McIntosh riceveva un viscerale memento
su come il frutto venerato dai suoi antenati lo avesse condannato a un
Purgatorio terreno. Il suo sapore contrastante (dolce e amaro) serviva da monito
riguardo ai pericoli degli insegnamenti delle chiese non cattoliche, che di primo
acchito potevano apparire piacevoli e allettanti. Perfino l’immagine popolare
della mela venne sovvertita. I celti associavano il frutto alla gloriosa
saggezza irradiata dal sole (il termine celtico abal, che significa
mela, si ritiene derivi dal nome di Apollo, dio del sole). Quando i cristiani
presero il sopravvento, i chierici relegarono la mela nella “giurisdizione di
Venere” e della lussuria, trasformandola in un simbolo di fascino volgare, a
volte associato alle malattie veneree.
La dice lunga sulla trasformazione della mela il ciclo mitologico
di re Artù e di Merlino, per molti aspetti un Nuovo Testamento mancato del
cristianesimo celtico. Nella versione originale i poteri soprannaturali di
Merlino erano costantemente associati alla mela, abal. Egli profetizzava
ai piedi di un albero carico di frutti purpurei, e il suo scritto più famoso, L’albero
delle mele, è un’ode al frutto, per il suo ruolo simbolico, fondamentale
nella resurrezione della fede druidica dopo la sconfitta da parte di Roma. “Il
dolce melo con i suoi dolcissimi frutti,” così recita una delle prime versioni
del poema “che cresce nei boschi selvaggi e solitari di Cleyddon! Tutti cercano
te, ma invano, fino al giorno in cui verrà Cadwaladr a combattere i sassoni.
Solo allora i britanni saranno di nuovo vittoriosi, guidati dal loro maestoso e
leggiadro re [Artù]; a ognuno sarà reso il maltolto e le trombe della gioia
annunceranno il trionfo della pace, il ritorno ai giorni sereni della
felicità.” Il pometo cui fa riferimento l’ode di Merlino è Avalon, Isola delle
mele, dove, secondo la leggenda, re Artù aspettava nel sonno l’ora della
riscossa della sua nazione. Il poema sembra sia stato composto nel V secolo,
più o meno all’epoca in cui il vero re Artù guidava la rivolta contro i
romani e il poeta Avito scriveva la sua versione della
cacciata dell’uomo dal Paradiso terrestre. Ma quando, settecento anni dopo,
uscì la versione ufficiale cristiana del ciclo di re Artù, il ruolo della mela
venne completamente sovvertito. In questa versione, scritta nel XII secolo dal
pio Goffredo di Monmouth, si narra di come Merlino, il sacerdote/mago druidico,
“fosse preso da follia e avesse la bava alla bocca” per aver mangiato delle mele,
descritte come “piene di quei piaceri velenosi propri delle donne”. Alcune
versioni più tarde narrano di come egli venisse scaraventato all’Inferno dove
il vero padre, Satana, lo attendeva. La chiesa di Roma, poi, bandì l’uso del
sidro dalle cerimonie religiose.
Alla fine, comunque, la mela si prese la sua bella
rivincita. I celti veneravano gli alberi in generale, non soltanto i meli, e i loro
sacerdoti erano soliti raccogliersi in meditazione in boschetti di frassini o
di querce. Ed è da questi luoghi sacri che noi prendiamo gli alberi che ogni
anno, a Natale, fanno bella mostra di sé nelle nostre case, con il loro profumo
silvestre e i loro rami addobbati di palline colorate; e cosa sono queste palline
se non sacre abal, stilizzate, commercializzate, ma comunque rosse e
verdi come ogni Pippin o McIntosh che si rispetti, il nostro omaggio a
un’antica visione del Paradiso.
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