4 agosto 2018

da Nel giardino del diavolo - Stewart Lee Allen

da Nel giardino del diavolo - Stewart Lee Allen
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Lo aiutai mettendogli le mani a coppa sulle palpebre, ma era chiaro che la montagna non voleva turisti quel giorno e così decidemmo di tornare da dove eravamo venuti. Nel frattempo c’eravamo persi e fu soltanto per caso, dopo aver vagato a vuoto per qualche tempo, che scorgemmo una capanna malandata, con un filo di fumo che usciva dal comignolo.
Qualche minuto più tardi ci stavamo riscaldando davanti a una stufa a carbone, sotto lo sguardo bonariamente corrucciato di due vecchi monaci con le barbe infilate nella cintura. Erano due eremiti – i cosiddetti “fanatici di Dio” – che rifiutavano i “comfort” della vita monastica e vivevano da soli in condizioni di assoluta austerità. Questi due si erano “sposati” quando erano diventati troppo vecchi per sopravvivere da soli. Non avevo mai visto una coppia meglio assortita. Il più taciturno ci preparò un pranzo a base di cipolle crude, pane e sherry fatto in casa, mentre George spiegava lo scopo della nostra ricerca. A questo punto l’altro monaco tirò fuori una piccola mela rossa. In natura, spiegò (George faceva da traduttore), tutto riflette la volontà divina: la forma delle nuvole, il fruscio delle foglie, il sapore della frutta sugli alberi. Così dicendo infilò un coltello nella mela. Poi, indicando le goccioline opalescenti che imperlavano l’acciaio della lama, ci invitò ad assaggiarle. Io e George prendemmo qualche goccia di questo magico liquore e lo portammo alle labbra. La prima impressione fu di una dolcezza mielosa, accattivante, cui fece seguito un retrogusto aspro, che pizzicava la lingua. “I sapori dolci sono come le lusinghe, che servono a distrarre l’uomo dalla parola di Dio” disse il monaco. “Per questo, sul Monte Athos, ogni pasto è accompagnato dalla lettura di un passo della Bibbia, per evitare che i fratelli si soffermino sui piaceri del cibo, e le golosità come la cioccolata sono vietate.” L’iniziale dolcezza della mela era dunque un segno di seduzione, mentre il retrogusto acidulo indicava un influsso diabolico, poiché i sapori amari ricordano il veleno e tutti i veleni, si sa, sono opera del diavolo, almeno secondo i chierici medievali. Alcuni vedono nel dualismo agrodolce della mela la perfetta allegoria della tentazione di Eva, in cui il primo morso rappresenta la “lingua melliflua” del serpente, mentre il retrogusto aspro fa presagire la cacciata dell’uomo dal Paradiso.
Il monaco tagliò due fettine sottili di mela e ne porse uno ciascuno a me e a George. “Vedete com’è rossa la buccia, come le labbra di una donna? E com’è bianca la polpa, come i suoi denti o la sua pelle?” E nel dire ciò ci invitò a mangiarla. Era saporita e croccante. Anche questo era visto come un segno del male, poiché la frutta, in genere, si ammorbidisce maturando. La mela, invece, acquista consistenza, il che era considerato dagli alchimisti come Vincent de Beauvais un fenomeno “contro natura”, “un segno di grande diavoleria… a conferma della sua natura immorale, crudele e ingannevole”. Il nostro ospite tagliò la mela in due e ce ne mostrò i semi. “Vedete,” disse “qui, nel cuore del frutto, si scorge il segno di Eva.” Indubbiamente, vista così, la mela ricordava vagamente l’organo sessuale femminile. Non proprio irresistibile, pensai. Ma il monaco non aveva finito. Prese un’altra mela e la tagliò a metà, questa volta in senso orizzontale. “Vedete la stella?” domandò. Tagliata in quel modo, i semi, che prima assomigliavano a una vagina, ora formavano una stella a cinque punte, il pentacolo, la prova definitiva del marchio di Satana. Non più grande di una monetina, ma la somiglianza era indubbia. Ancora più preoccupante, almeno agli occhi di un fanatico religioso, era che intorno a ogni seme la polpa, ossidata dal contatto con l’aria, era annerita, come bruciacchiata, quasi che una mano magica avesse impresso a fuoco il marchio di Lucifero nel cuore della mela.
“Gli alberi da frutto nascondono alcuni segreti di Dio,” scriveva la famosa mistica medievale Ildegarda di Bingen “che soltanto gli eletti riescono a percepire.” Ildegarda descriveva così la filosofia scientifica di quei secoli bui, una disciplina derivata dalla teoria platonica, secondo la quale tutti gli oggetti terreni sono ombre proiettate dagli esseri reali del mondo delle idee. Platone aveva elaborato questa teoria in termini assolutamente astratti, ma i cristiani medievali avevano desunto che il mondo delle idee si riferisse al loro Paradiso.
Essi ritenevano, quindi, che tutti gli oggetti terreni fossero simboli mandati da Dio per comunicare la Sua volontà. Il compito dei religiosi era simile a quello di uno psichiatra junghiano: interpretavano i “messaggi” nascosti mandati da Dio e li spiegavano alle masse ignoranti. Il colore allettante della mela, il suo gusto ambiguo, il torsolo così provocatoriamente femminile e, soprattutto, il pentacolo nascosto, erano tutti segni atti a dimostrare che si trattava proprio del frutto cresciuto sull’albero della conoscenza proibita.
Finito il suo racconto, l’eremita se ne uscì con una bella risata. “Ma nella Bibbia non è specificato quale sia il frutto proibito” disse. “È stata la chiesa di Roma che ci ha messo la
mela. La chiesa ortodossa considera il frutto proibito solo come un simbolo di superbia e di desiderio carnale. Quelle che vedete qui sono semplici mele, miei cari amici, che per grazia di Dio sono divise in quattro parti, una per ciascuno di noi.” E sorridendo porse a ognuno uno spicchio.
“E ora mangiate!”
(…)

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