Olivia Vika - black cat face
da “Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò
a volare” - Luis Sepúlveda
«Mi dispiace molto
lasciarti solo» disse il bambino accarezzando il dorso del gatto nero grande e
grosso.
Poi continuò a
preparare lo zaino. Prendeva una cassetta del gruppo Pur, uno dei suoi
preferiti, la infilava dentro, esitava, la tirava fuori, e non sapeva se
rimetterla nello zaino o se lasciarla sul comodino. Era difficile decidere cosa
portarsi via per le vacanze e cosa lasciare a casa.
Il gatto nero grande
e grosso lo guardava attentamente, seduto sul davanzale della finestra, il suo
posto preferito.
«Ho preso la maschera
subacquea? Zorba, hai visto la mia maschera subacquea? No. Non la conosci
perché a te non piace l’acqua. Non sai cosa ti perdi. Nuotare è uno degli sport
più divertenti. Un po’ di croccantini?» gli offrì il bambino prendendo la
scatola. Gliene servì una porzione più che generosa, e il gatto nero grande e
grosso iniziò a masticare lentamente, per gustarli bene. Che biscottini
deliziosi, croccanti, al sapore di pesce!
«È un ragazzo
fantastico» pensò il gatto con la bocca piena. «Altro che fantastico. È il
migliore!» si corresse mentre ingoiava.
Zorba, il gatto nero
grande e grosso, aveva degli ottimi motivi per pensarla così di quel bambino
che spendeva i soldi della sua paghetta in quei deliziosi croccantini, che
teneva sempre pulita la lettiera dove lui faceva i suoi bisogni, e che lo
istruiva parlandogli di cose importanti.
Avevano l’abitudine
di passare molte ore assieme sul balcone osservando l’incessante traffico del
porto di Amburgo, e lì, per esempio, il bambino gli diceva:
«Vedi quella nave,
Zorba? Sai da dove viene? Be’, viene dalla Liberia, che è un paese africano
molto interessante perché è stato fondato da persone che una volta erano
schiave. Quando sarò grande, diventerò il capitano di un grosso veliero e andrò
in Liberia. E tu verrai con me, Zorba. Sarai un buon gatto di mare. Ne sono
sicuro».
Come tutti i ragazzi
di porto, anche quel bambino sognava viaggi in paesi lontani. Il gatto nero
grande e grosso lo ascoltava facendo le fusa, e si vedeva anche lui a bordo di
un veliero che solcava i mari. Sì. Il gatto nero grande e grosso nutriva molto
affetto per il bambino, e non aveva dimenticato che gli doveva la vita.
Zorba aveva contratto
quel debito il giorno stesso in cui aveva abbandonato la cesta che faceva da
casa a lui e ai suoi sette fratelli. Il latte di sua madre era tiepido e dolce,
ma Zorba voleva assaggiare una di quelle teste di pesce che la gente del
mercato dava ai gatti adulti. Non che pensasse di mangiarla tutta lui, no, la
sua idea era di trascinarla fino alla cesta e là miagolare ai fratelli:
«Smettetela di
succhiare la nostra povera mamma! Non vedete come è diventata magra? Mangiate
il pesce, che è il cibo dei gatti del porto».
Pochi giorni prima
che abbandonasse la cesta, sua madre gli aveva miagolato molto seriamente:
«Sei agile e sveglio,
e va benissimo, ma devi stare attento a come ti muovi e a non uscire dalla
cesta. Domani o dopodomani verranno gli umani a decidere del tuo destino e di
quello dei tuoi fratelli. Sicuramente vi daranno dei nomi simpatici e avrete il
cibo assicurato. È una gran fortuna che siate nati in un porto, perché nei
porti i gatti sono amati e protetti. L’unica cosa che gli umani si aspettano da
noi è che teniamo lontani i topi. Sì, figliolo. Essere un gatto di porto è una
gran fortuna, ma tu devi stare attento perché c’è qualcosa in te che può
renderti un disgraziato. Figliolo, se guardi i tuoi fratelli, vedrai che sono
tutti grigi e che hanno la pelliccia a righe come le tigri. Tu, invece, sei
nato completamente nero, a parte quella piccola macchia bianca che hai sulla
gola. Certi umani credono che i gatti neri portino sfortuna, perciò, figliolo,
non uscire dalla cesta».
Ma Zorba, che
all’epoca sembrava una pallina di carbone, abbandonò la cesta. Voleva
assaggiare una di quelle teste di pesce. E anche vedere un po’ di mondo.
Non arrivò molto
lontano. Trotterellando verso una bancarella di pesce con la coda ben alta e
vibrante, passò davanti a un grosso uccello che dormicchiava con la testa
piegata di lato. Era un uccello molto brutto e con un gozzo enorme sotto il
becco. All’improvviso il piccolo gatto nero sentì che il suolo si allontanava
da sotto le sue zampe, e senza capire cosa stava succedendo si ritrovò a far
capriole in aria. Allora ricordò uno dei primi insegnamenti di sua madre e
cercò un posto dove cadere in piedi, ma sotto lo aspettava l’uccello con il
becco aperto. Piombò nel gozzo, che era molto buio e puzzava in modo orribile.
«Fammi uscire! Fammi
uscire!» miagolò disperato.
«Accidenti. Ma tu
parli» gracchiò l’uccello senza aprire il becco. «Che razza di bestia sei?»
«Fammi uscire o ti
graffio!» miagolò lui minaccioso.
«Ho il sospetto che
tu sia una rana. Sei una rana?» domandò l’uccello sempre a becco chiuso.
«Soffoco, stupido
uccello!» gridò il gattino.
«Sì. Sei una rana.
Una rana nera. Che strano».
«Sono un gatto e
anche furibondo! Fammi uscire o te ne pentirai!» miagolò il piccolo Zorba
cercando un punto in quel gozzo buio in cui conficcare gli artigli.
«Credi che non sappia
distinguere un gatto da una rana? I gatti sono pelosi, veloci, e puzzano di
pantofola. Tu sei una rana. Una volta ho mangiato diverse rane e non mi sono
dispiaciute, ma erano verdi. Senti, non sarai mica una rana velenosa?» gracchiò
preoccupato l’uccello.
«Sì! Sono una rana
velenosa e per di più porto sfortuna!»
«Che dilemma! Una
volta ho mandato giù un riccio velenoso e non mi è successo nulla. Che dilemma!
Ti ingoio o ti sputo?» meditò l’uccello, ma non gracchiò altro perché si agitò,
sbatté le ali, e finalmente aprì il becco.
Il piccolo Zorba,
completamente fradicio di bava, si affacciò e saltò a terra. Allora vide il
bambino, che teneva l’uccello per il collo e lo scuoteva.
«Devi essere cieco,
scemo di un pellicano! Vieni, gattino. Per poco non finisci nella pancia di
questo uccellaccio» disse il bambino e lo prese in braccio.
Così era iniziata
quell’amicizia che durava ormai da cinque anni.
Il bacio del bambino
sulla testa lo allontanò dai ricordi. Vide che si metteva lo zaino, andava alla
porta, e da là lo salutava ancora una volta.
«Ci vediamo fra
quattro settimane. Penserò a te tutti i giorni, Zorba. Te lo prometto».
«Addio Zorba! Addio
ciccione!» lo salutarono i due fratelli minori del bambino.
Il gatto nero grande
e grosso sentì chiudere la porta a doppia mandata e corse a una finestra che si
affacciava sulla strada per vedere la sua famiglia adottiva prima che salisse
in auto.
Il gatto nero grande
e grosso sospirò compiaciuto. Per quattro settimane sarebbe stato signore e
padrone dell’appartamento. Un amico di famiglia sarebbe venuto ogni giorno ad
aprirgli un barattolo di cibo e a pulirgli la lettiera. Quattro settimane per
oziare sulle poltrone e sui letti, o per uscire sul balcone, arrampicarsi sul
tetto, saltare sui rami del vecchio ippocastano e scendere dal tronco nel
cortile interno, dove aveva l’abitudine di ritrovarsi con gli altri gatti del
quartiere. Non si sarebbe annoiato. Assolutamente.
Così pensava Zorba,
il gatto nero grande e grosso, perché non sapeva cosa gli sarebbe caduto fra
capo e collo nelle ore seguenti.
Traduzione
di Ilide Carmignani
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