dipinto di Domenico Gnoli
XV • La torta (da “Lo
spleen di Parigi”) – Charles Baudelaire
Ero in viaggio. Il paesaggio in mezzo a cui mi trovavo era di una
grandiosità e nobiltà irresistibili. Senza dubbio in quel momento qualcosa di
esso passò nel mio animo. I miei pensieri volteggiavano con una leggerezza pari
a quella dell'atmosfera; le passioni volgari, come l'odio e l'amore profano, mi
apparivano ora tanto lontane quanto le nuvole che filavano via in fondo agli
abissi sotto i miei piedi; la mia anima mi sembrava vasta e pura come la volta
del cielo da cui ero avvolto; il ricordo delle cose terrestri non arrivava al
mio cuore, indebolito e affievolito, come il suono della campanella delle
greggi che invisibili passavano lontano, molto lontano, sul versante di
un'altra montagna. Sul laghetto immobile, nero per l'immensa profondità,
passava a volte l'ombra di una nuvola, come il riflesso del mantello di un
gigante in volo nel cielo. E ricordo che questa sensazione solenne e rara,
causata da un grande movimento perfettamente silenzioso, mi riempiva di una
gioia mista di paura. Mi sentivo insomma, grazie all'entusiasmante bellezza da
cui ero circondato, in perfetta pace con me stesso e con l'universo; e credo
che nella mia perfetta beatitudine e nel mio totale oblio di ogni male
terrestre sarei arrivato a non trovare neppure così ridicoli i giornali che si
ostinano a ritenere che l'uomo è naturalmente buono; - ma ecco che
l'inguaribile materia fece di nuovo sentire le sue esigenze, e io mi preoccupai
di dare sollievo alla fatica e di rimediare all'appetito causati da una così
lunga ascensione. Tirai fuori dalla tasca un grosso pezzo di pane, un bicchiere
e una boccetta con un certo elisir che allora i farmacisti vendevano ai
viaggiatori per mescolarlo, nel caso, con l'acqua di neve.
Tagliavo tranquillamente il mio pane, quando un rumore lievissimo mi fece alzare gli occhi. Davanti a me stava un piccolo essere arruffato, stracciato e nero, i cui occhi infossati, selvaggi e come imploranti divoravano il mio pezzo di pane. Lo sentii sospirare, con una voce bassa e roca, la parola: torta! Non potei impedirmi di ridere sentendo l'appellativo con cui voleva onorare il mio pane quasi del tutto privo di condimenti, e ne tagliai una bella fetta per offrirgliela. Lentamente si avvicinò, senza abbandonare con gli occhi l'oggetto della sua bramosia; poi, afferrando con la mano il pezzo di pane, subito si fece indietro frettolosamente, come se temesse che la mia offerta non fosse sincera, o che già me ne fossi pentito.
Ma in quello stesso istante fu travolto da un altro piccolo selvaggio, uscito da chissà dove, e così perfettamente simile al primo che si sarebbe potuto prenderlo per il suo gemello. Rotolarono insieme a terra, disputandosi la preziosa preda, nessuno dei due volendo in nessun modo sacrificarne la metà per il proprio fratello. Il primo, esasperato, afferrò il secondo per i capelli; quest'ultimo gli addentò l'orecchio e ne sputò un brandello sanguinante imprecando in dialetto. Il legittimo proprietario della «torta» cercò di affondare i suoi piccoli artigli negli occhi dell'usurpatore; questo a sua volta applicò tutte le sue forze nel tentativo di strangolare il suo avversario con una mano, mentre con l'altra cercava di far scivolare nella propria tasca il premio della lotta. Rianimato dalla disperazione, il vinto si raddrizzò e fece ruzzolare a terra il vincitore con una testata allo stomaco. A che scopo descrivere una lotta vergognosa che in verità durò più a lungo di quanto le loro energie infantili sembravano mettere? La «torta» viaggiava da una mano all'altra, e cambiava tasca ad ogni istante; ma, ahimè, cambiava anche il suo volume e quando alla fine, estenuati, ansanti, insanguinati, si fermarono per l'impossibilità di continuare, non restava più, a dire il vero, nessun oggetto di contesa; il pezzo di pane era scomparso, ed era sparpagliato in tante briciole del tutto indistinguibili dai granelli di sabbia a cui si mescolavano.
Questo spettacolo mi aveva annebbiato la vista del paesaggio, e la calma gioiosa nella quale la mia anima si beava prima di aver visto in azione questi piccoli uomini, era ormai totalmente scomparsa; me ne rimase a lungo una notevole tristezza, e continuavo a ripetermi: «Esiste dunque un meraviglioso paese nel quale il pane si chiama "torta", ed è una ghiottoneria tanto rara che basta a far nascere una guerra perfettamente fratricida!».
Tagliavo tranquillamente il mio pane, quando un rumore lievissimo mi fece alzare gli occhi. Davanti a me stava un piccolo essere arruffato, stracciato e nero, i cui occhi infossati, selvaggi e come imploranti divoravano il mio pezzo di pane. Lo sentii sospirare, con una voce bassa e roca, la parola: torta! Non potei impedirmi di ridere sentendo l'appellativo con cui voleva onorare il mio pane quasi del tutto privo di condimenti, e ne tagliai una bella fetta per offrirgliela. Lentamente si avvicinò, senza abbandonare con gli occhi l'oggetto della sua bramosia; poi, afferrando con la mano il pezzo di pane, subito si fece indietro frettolosamente, come se temesse che la mia offerta non fosse sincera, o che già me ne fossi pentito.
Ma in quello stesso istante fu travolto da un altro piccolo selvaggio, uscito da chissà dove, e così perfettamente simile al primo che si sarebbe potuto prenderlo per il suo gemello. Rotolarono insieme a terra, disputandosi la preziosa preda, nessuno dei due volendo in nessun modo sacrificarne la metà per il proprio fratello. Il primo, esasperato, afferrò il secondo per i capelli; quest'ultimo gli addentò l'orecchio e ne sputò un brandello sanguinante imprecando in dialetto. Il legittimo proprietario della «torta» cercò di affondare i suoi piccoli artigli negli occhi dell'usurpatore; questo a sua volta applicò tutte le sue forze nel tentativo di strangolare il suo avversario con una mano, mentre con l'altra cercava di far scivolare nella propria tasca il premio della lotta. Rianimato dalla disperazione, il vinto si raddrizzò e fece ruzzolare a terra il vincitore con una testata allo stomaco. A che scopo descrivere una lotta vergognosa che in verità durò più a lungo di quanto le loro energie infantili sembravano mettere? La «torta» viaggiava da una mano all'altra, e cambiava tasca ad ogni istante; ma, ahimè, cambiava anche il suo volume e quando alla fine, estenuati, ansanti, insanguinati, si fermarono per l'impossibilità di continuare, non restava più, a dire il vero, nessun oggetto di contesa; il pezzo di pane era scomparso, ed era sparpagliato in tante briciole del tutto indistinguibili dai granelli di sabbia a cui si mescolavano.
Questo spettacolo mi aveva annebbiato la vista del paesaggio, e la calma gioiosa nella quale la mia anima si beava prima di aver visto in azione questi piccoli uomini, era ormai totalmente scomparsa; me ne rimase a lungo una notevole tristezza, e continuavo a ripetermi: «Esiste dunque un meraviglioso paese nel quale il pane si chiama "torta", ed è una ghiottoneria tanto rara che basta a far nascere una guerra perfettamente fratricida!».
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