1 dicembre 2018

da Afrodita - Isabel Allende

Vincent Van Gogh - Natura morta con zoccoli e cavolo, 1881, Van Gogh Museum
da Afrodita - Isabel Allende
Chi scrive di cucina in genere è stato pasciuto nell’alveo di una lunga tradizione di raffinatezza culinaria ed è nato e cresciuto in luoghi suggestivi, come la campagna francese o una villa italiana in cui madri e nonne coltivavano un’arte delicata, ma succulenta. Sulla tavola di tutti i giorni si serviva il vino migliore e mentre il padre, con il tovagliolo annodato al collo, tagliava con solennità un pane rustico stringendolo al petto come se stesse sgozzando un rivale, la madre posava lo sguardo sulla sfilata delle robuste ragazze della servitù che portavano dalla cucina fumanti zuppiere di porcellana, vassoi di pietanze genuine, piatti di formaggi locali e ceste con piramidi di frutta e dolci. Si trattava di sostanziosi banchetti che riunivano la famiglia nella lenta cerimonia di ogni pasto. Su quei tavoli, sempre coperti da inamidate tovaglie di damasco, brillavano i bicchieri di cristallo, le stagnine per l’olio di oliva più vergine e per l’aceto balsamico, le fioriere e i candelabri d’argento, testimoni muti di secoli di eccellente cucina. A quella mensa probabilmente si parlava esclusivamente di argomenti piacevoli, dell’impareggiabile consistenza del paté di fegato con i tartufi, del sapore del cervo alla griglia, della sensualità del soufflé di ciliegie e dell’aroma di quel nuovo caffè giunto dal Brasile grazie a un amico esploratore. E’ questo, credo, l’ambiente di provenienza di celebri cuochi e gourmet, di assaggiatori di vino, di autori di libri di cucina, insomma degli aristocratici del cibo che orientano i palati di quell’infima percentuale di umanità che può mangiare giornalmente. E temo di non poter esibire credenziali del Genere.

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