27 dicembre 2019

dal racconto “Il raccolto” - Enzo Montano

dal racconto “Il raccolto”


Al risveglio mise in atto la più brillante soluzione concepita da mente umana che prese corpo nel brevissimo dormiveglia che aveva preceduto la più che meritata siesta.
Afferrò risolutamente una robusta fune, la legò all’anello di un angolo del telone su cui era ammassato il grano, assicurò quindi saldamente l’altra estremità ai guarnimenti del mulo a cui aveva autorevolmente delegato la fatica di spostare il frutto del raccolto risultato in esubero rispetto alle sue ponderate previsioni. L’idea era di una semplicità disarmante: il mulo avrebbe trascinato il telone, cosi il grano sarebbe stato messo rapidamente al riparo, nel porticato antistante la casa.
Ma quello che Peppe non aveva strappato dagli angoli bui dell’imponderabilità era il fatto che gli zoccoli del mulo non avrebbero fatto presa sul pavimento liscio del porticato, che il mulo sarebbe caduto fratturandosi la zampa anteriore destra, che lo strappo violento avrebbe tirato via il telone e che il grano sarebbe rimasto sparso nell’aia, dove in breve sarebbero accorse le sue numerose galline e tutti i colombi della contrada a gozzovigliare come in un antico baccanale.
L’intervento di alcuni vicini evitò il peggio. Buona parte del grano fu raccolto e messo al sicuro. Il mulo fu venduto, meglio dire quasi regalato, al macello dal momento che il veterinario non aveva concesso altre possibilità alla povera bestia.
La colpa del disastro fu attribuita in egual misura ad Annina, alla sfortuna e al mulo. A quest’ultimo anche l’aggravante di essersi condannato al macello e di aver prodotto un danno alle poco floride finanze domestiche.
Peppe, travolto dall’accanimento della malasorte, vittima ingiusta di cosi ‘codardo oltraggio’, andò al bar nel tentativo di trovare conforto nella distrazione. Si sedette a un tavolino appartato, quasi in penombra, dove la sua immaginazione gli fece intravedere il profilo della sfortuna che, nella sua mente irata, assumeva le sembianze di una donna dai capelli arruffati, gli occhi di fuoco e il viso bitorzoluto. Sembrava la brutta copia di Maga Magò. Con quella presenza inquietante, Peppe ingaggiò una singolare tenzone che durò quattordici birre, nove colmi bicchierini di Stock 84, cinque di vermouth rosso e altrettanti di marsala all’uovo. Si smarrì nelle profondità di una buia vallata dove, tra una strana vegetazione fatta di spighe gigantesche, scorrevano torrenti di brandy e birra, marsala e vermouth.
Gli amici lo accompagnarono a casa dove si svegliò nel tardo pomeriggio di due giorni dopo.


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