Van Gogh - Campo di grano
da Feria d’agosto – Cesare Pavese
L'eremita
Nino era un ragazzo
dispettoso - così avevo sempre creduto - ma ora mi accorgevo che i suoi
dispetti non erano capricci, o almeno non più dei miei. Cominciavo a capire che
quella casa non era per lui quello che era per me. Il corridoio che la
traversava tutta, dalla porta d'ingresso all'uscio sull'orto - riempiendola di
verde e di luce per chi vi entrava - era per lui una promessa di libertà, un
richiamo all'aperto; per me il semplice sfondo di un'amarezza indurita. C'erano
stanze - una stanza - sempre chiuse e se quando mia cognata per riordinare le
apriva Nino vi ficcava il naso, provavo una fitta ribellione perché capivo che
a lui le tendine, il comò, la toeletta, sarebbero rimasti in mente soltanto come
un bello e strano scenario da fantasticarci.
Dopo la morte di mia
moglie non credevo che sarei più riuscito a vivere in quella casa. Invece c'ero
tornato, con Nino, nel forte del luglio, e i primi giorni Nino non smise di
rimpiangere il mare da cui provenivamo. C'era stato quell'anno per la prima
volta nella sua vita, e non gli aveva fatto troppo bene: come sua madre negli
ultimi tempi già con gli occhi cerchiati s'incaponiva a mangiare certa frutta
che le era piaciuta da ragazza, anche Nino aveva disperatamente tentato di
nascondermi le nausee, gli sfinimenti che l'aria marina gli causava. Aveva
dodici anni e non gli era parso vero di giocare tutto il giorno con l'acqua e
coi coetanei. Quando gli dichiarai che saremmo inesorabilmente partiti, mi
disse: - Vedrai che a casa starò ancora peggio.
Adesso s'andava
rassegnando e rimettendo, anche grazie al permesso che gli davo di bagnarsi nel
fiume. Ma gli vietavo d'andarci solo; lo accompagnavo io stesso, e Nino era
abbastanza ragionevole da non cercare d'ingannarmi e farci scappate, anche
perché sapeva che in questo caso ci avrebbe rimesso sui bagni futuri. Del resto
lui che al mare si era fatto tanti compagni, in paese aveva l'aria di non
intendersi né coi contadinotti, né coi pochi ragazzi della sua condizione che
stavano sulla nostra Strada. Faceva crocchio con loro, magari giocava, ma in
casa non ne portava mai. Credo che fin dai primi giorni se li fosse messi
contro ostentando con troppo calore i suoi ricordi marini. La mattina la passava
scatenato per i prati dietro la casa, o aggirandosi sul mercato rumoroso fra le
donne e i villani, avido specialmente d'incontri con venditori e ciarlatani che
venissero da lontano, dai paesi dietro la collina, oltre le terrazze del fiume:
gente che parlava in modi vivaci e vestita con larghe fasce rosse sui fianchi e
qualche volta si vantava di essere stata in terre esotiche. Ricordo ancora la
gioia con cui fece la conoscenza di Colino il pescivendolo, che teneva anche un
barile di acciughe e gli racconto che tutti gli anni andava in Spagna per
rinnovarlo. Ne parlava a tavola con agitazione. Mia cognata - una buona donna
che non era mai uscita da quella piazzetta - lo canzonò e Nino la guardò con
odio. A metà pomeriggio prendevamo i prati, io e Nino - lui mi correva avanti -
per andarci a bagnare. Il fiume in quel punto era larghissimo, sproporzionato
al paese che vi digradava coi suoi orti, ma non molto profondo. Lo
attraversavamo a guado e poi, spogliatici fra i salici, si prendeva il sole sul
grande greto, ci si tuffava in un laghetto presso l'altra riva, e a volte per
curiosità ci s'inoltrava nella macchia che correva indisturbata fino al piede
della collina. Nino era molto orgoglioso della sua pelle abbronzata.
Sentii parlare
dell'eremita la prima volta a tavola. A una parola di Nino mia cognata aveva
rimbeccato: - È uno sporcaccione e non basterebbero tutte quelle donne a
lavarlo -. Nino diceva che quella mattina l'eremita era comparso sul mercato a
vendere pelli di conigli.
- E chi è? - chiesi.
Pare fosse un
giovanotto che, stufo di lavorare, s'era stabilito a mezza costa della collina
sul fiume, vi aveva scavato una grotta, teneva la capra, e si lasciava visitare
da gente devota. - Ma il parroco in pulpito ha già avvertito le donne, - interloquì
mia cognata. Nino, senza badarle, disse che aveva la barba bionda, una giacca
di pelle e i sandali. - È un eretico, - disse mia cognata. Dichiarai ridendo
che probabilmente era soltanto un fannullone. E allora Nino con foga si mise a
spiegare che prima di fare l'eremita quello era stato marinaio e aveva girato
il mondo, era stato ricco e aveva dato via i soldi. Queste cose le sapevano
tutti in paese. Per esempio. Colino.
- Tu smettila, -
gridò a mia cognata che rideva. - Sei una bigotta qualunque.
Così quel pomeriggio
non andammo a bagnarci, e Nino che in castigo non piangeva mai scomparve per
l'usciolo dell'orto. Verso sera uscii sulla strada a cercarlo, e ne chiesi ai
muratori che lavoravano in fondo al paese alla chiesa nuova, ritrovo di tutti i
ragazzi. Non l'avevano visto. Quando rientrai per la cena, andò mia cognata a
prenderlo nell'orto, dov'era stato tutte quelle ore a passeggiare tra i fagioli
e la griglia. Dovemmo metterci a ridere per rasserenarlo, e non toccargli più
il suo eremita. Diverse volte nell'anno si era già comportato così, che era il
modo di fare di sua madre – a uno screzio, a un rabbuffo anche innocente si
chiudeva in se stesso e impallidiva, stringeva i pugni, fuggiva a nascondersi.
Si sarebbe detto che, morta lei, volesse prenderne il posto.
Le somigliava anche
in un certo ardore rattenuto, che a volte lo faceva tremare e pareva consumarlo
in fondo agli occhi. Io non sapevo che dirmi riconoscendo ora nei suoi gesti e
nelle sue parole lei rediviva. Col dolore sempre presente, sempre incolmabile,
della sua perdita, rifermentava in me l'antico rancore, l'astio inconfessabile
che è il rovescio di ogni attaccamento troppo forte. Né mi sorprese affatto
quando quella sera, portandolo noi a letto. Nino volle che la zia uscisse, la
cacciò quasi, e poi mi disse supplichevole: - Papà, mandala via da questa casa.
Mandala via perché la uccido -. Sua madre avrebbe detto lo stesso.
Per calmarlo dovetti
promettergli di portarlo a visitare l'eremita. Ci andammo dopo un bagno più
rapido uno di quei giorni, e ricordo che prendendo quegli erti sentieri mi
lasciavo guidare da Nino che mi scappava innanzi come chi conosce la strada. -
Sei già venuto quassù? - gli dissi. - Me l'ha spiegato il massaro -. La macchia
di rovi e di felci continuava per un tratto di costa e ci fece sudare, esposta
al sole e impervia com'era. Arrivammo sullo spiazzo trafelati. Nino vi giunse
prima di me e si voltò a chiamarmi.
- Questo diavolo vive
in mezzo alle vipere, - gli dissi raggiungendolo.
Un sentierino di
lastre di tufo accostate portava alla bocca nera della caverna, che una siepe
di spini rugginosi ostruiva. Sull'orlo della balza che dava nel vuoto facevano
da ringhiera certe rampicanti attorcigliate a un traliccio di canne.
Parlavamo forte, ma
nessuno si fece vivo. Mi avvicinai alla caverna per togliere Nino dalla brezza.
- Te l'ho detto che a quest'ora va nei boschi con la capra, - disse lui,
correndomi innanzi a far capolino sopra la siepe.
- Non entrare. È casa
d'altri.
- C'è dell'acqua, -
disse Nino. - Ho sete. Ero stupito della sua audacia che non conoscevo, e mi
sporgevo nella grotta con qualche esitazione, ma Nino scappò dentro scavalcando
gli spini. Quando entrai, già beveva al ramaiolo.
Dal fondo della
caverna veniva un tanfo di stalla. Il suolo era asciutto e sabbioso.
Rivolgendosi all'entrata, non si vedevano che le rampicanti azzurrine nel
vuoto.
- Usciamo, - dissi. -
Siamo sudati. Nino volle che accendessi un cerino per mostrarmi la volta. - Non
bere più. Non sai mica che acqua sia.
- Oh è buona, - mi
disse ansante.
Ottenni che si muovesse
soltanto lasciando un mezzo sigaro nella tasca di un panciotto appeso al muro.
Dirò la verità. Provavo una certa invidia sentimentale per quel poco di buono
che aveva escogitato un modo così comodo e grandioso di spassarsela e vivere a
simile altezza sopra tutte le seccature del paese e del mondo. Durante la
discesa tra le felci guardavo Nino che, imbronciato, mi camminava innanzi
senz'esitare mai sul sentiero da prendere. Era evidente che per quella costa
c'era già salito altre volte. Gli tenni un discorso saltuario, interrotto dai
fossati piovani, sul suo modo d'impiegare le giornate. Non era il caso di
rimproverarlo. Ma gli chiesi di che cosa intendeva occuparsi, ora che s'avvicinava
ai tredici anni e non era più un bambino. Questo discorso lo facevamo spesso,
di ritorno dal fiume, e si finiva sempre in confidenze reciproche sul mondo e
sulla nostra vita. Io gli parlavo di quand'ero ragazzo, lui m'interrompeva coi
suoi progetti. Quella sera fu taciturno più del solito, tanto che m'impensierì.
Seguirono giorni
immensi e bruciati - era mezz'agosto - tanto afosi anche tra quelle ventilate
colline, che la campagna ne soffriva e dovetti fare scappate più assidue su
certe terre che possedevo a mezz'ora dal paese. Nino veniva con me volentieri e
conosceva tutti i miei contadini. Erano terre dov'era nata e cresciuta mia
moglie, e dicevamo ancora «andare dalla Mamma», andar lassù. Con noi certi
pomeriggi veniva la zia, contenta che così non andassimo al fiume. Sapevo bene
che per contentarla avrei dovuto troncare del tutto i nostri bagni. Per non
stare in ansia su Nino, quella buona donna era giunta a persuadersi che anche
per me c'era pericolo a pigliare tanto sole.
Una mattina di
mercato Nino usci sperando d'incontrare l'eremita. All'una non era ancora
tornato, e già tremavo pensando a quella chiesa in costruzione da cui non
riuscivo a staccarlo. La zia brontolava in cucina. Quando apparve, trafelato e
sudato, fu lei che lo interrogò. La zia sapeva dov'era andato. L'avevano veduto
scendere al fiume con l'eremita. La zia gli tolse le scarpe. La zia gli trovò
la sabbia tra le dita dei piedi.
Quello che Nino non
voleva ammettere era di aver fatto senza mutandine il bagno in compagnia. Ma,
se da solo, era peggio: aveva corso il rischio di annegare. Finalmente ammise che
l'eremita l'aveva tenuto d'occhio dalla riva.
Lo castigai senza
convinzione, parendomi la nostra una mera vendetta per l'ansia sofferta. Nino
aveva un bel ripetere:
- Sono forse
annegato? -: la zia ce l'aveva con l'eremita vagabondo e peccatore.
Quel pomeriggio presi
Nino in disparte e gli parlai seriamente. Gli dissi che capivo il suo dolore,
che ero stato anch'io ragazzo, che non era questione delle mutandine, ma che
bisogno aveva di scappare di nascosto e mettersi nei pericoli col primo venuto,
quando sapeva che la sera stessa ce l'avrei portato io?
- La mattina è più
bello, - disse Nino.
Allora lo misi in
guardia contro l'eremita, gli dissi che non sapevamo chi fosse, ma che un gran
che di buono non poteva essere se, così giovane e robusto, invece di lavorare
fuggiva la gente e viveva come le bestie, si faceva mantenere d'elemosina e
nemmeno la caverna dove stava era sua. Gli chiesi se era andato altre volte da
lui.
Nino non mi
rispondeva e fissava indignato la parete. La cena ci andò a tutti per traverso,
perché Nino mi disse freddamente che non aveva fame. Si ritirò senza farselo
ordinare e quando passai dalla sua stanza lo trovai muto, con gli occhi
spalancati, come avesse la febbre. Gli toccai la fronte, che mi parve
scottante. Gli dissi di non ammalarsi se voleva venire l'indomani a fare il
bagno con me.
L'indomani Nino era
sparito. Il letto ancor tiepido diceva ch'era uscito non prima dell'alba. Come
per accompagnare il colpo, il tempo, torrido fino alla sera avanti, s'era
guastato nella notte, e la luce fredda rompeva fra lampi e umide ventate.
Sapevo che Nino aveva un affascinato terrore della folgore.
Lo cercammo per tutta
la casa. Ne chiedemmo ai vicini; corsi nei campi a cercarlo dai nostri
contadini dove qualche volta si rifugiava per nascondere le sue umiliazioni;
mossi acerbi e ingiusti rimproveri alla zia, che mi guardava costernata. Ogni
colpo di tuono mi rimescolava. A mezza mattina riprese a diluviare. Anche il
fiume si sarebbe gonfiato, e forse Nino non aveva un tetto. Alla prima schiarita
corsi dai carabinieri.
Era mezzogiorno e
rientravo spossato sotto l'acqua, quando sbucò sulla piazza un gigante irsuto e
biondo, avvolto in una stinta mantella militare. Quando fu sulla soglia, aprì
la mantella ed ecco Nino, testa e gambe penzoloni come un capretto, che si
rimise in piedi vergognoso.
- Questo ragazzo va
sfangato, - disse con una voce allegra e rauca. Gli colavano stille dalla barba
bionda, e il mantello esalava il tanfo dei cani bagnati. Nino lo fissava
incantato, benché gli vedessi sulle gote tracce di lacrime recenti.
- Se col bel tempo
volete venire a respirare l'aria buona, - disse il gigante serio serio, - non
dico di no, ma ognuno ha la sua casa, anche le bestie.
Mi salutò con un
cenno del capo, e se ne andò coi piedi enormi di fango.
Nino lo mettemmo a
letto temendo la febbre, ma verso sera senz'averci parlato prese un sonno
tranquillo. L'indomani si alzò cupo e assorto, e non volle bere il suo latte.
Mi guardò di sfuggita quando la zia cominciò le domande, e non le rispose. Io colsi
il momento e dissi a mia cognata che volevo salire dall'eremita per
ringraziarlo.
Nino mi seguì nella
mia stanza e balbettò che non ci andassi. L'eremita non voleva nessuno nella
caverna. - Allora tu ci sei andato? - C'era entrato per ripararsi dalla pioggia.
- Alle quattro del mattino? - Non andarci, non vuole nessuno, - ripeté Nino.
Gli dissi allora: -
Sei tu che volevi restarci, sciocco. Sei tu che volevi scappare di casa. Chi
vuoi che ti prenda. Non sei mica suo figlio. Lui ha dimostrato di avere la
testa sul collo.
- È un vagabondo,
papà.
- È un brav'uomo. Che
cosa ti abbiamo fatto noi di male?
Tremavo nel mio cuore
più di lui. Non mi rispose. Ma se in quei giorni non tentò altre fughe, non fu
certo per farmi piacere.
Agosto volgeva alla
fine, e l'imminenza dei primi raccolti cominciò a scuotere la calma delle
mattinate. Cigolavano carri; si sentiva parlare di feste e di balli nei paesi
vicini. Un giorno che passavo sotto i ponti della chiesa (Nino era nei campi di
meliga) sentii chiamarmi come per scherzo da una voce chiara. Da un davanzale
apparve la faccia bionda dell'eremita. Risposi stupefatto.
- Ho trovato una casa
ma non il tetto, - mi disse ridendo e tergendosi la fronte. Facce di muratori
facevano capolino.
- Non state più
lassù?
- Nei boschi? No. La
guardia campestre non vuole. Solamente le bestie hanno il libero transito.
- Ma voi sapete un
mestiere. L'eremita fece un gesto come a dire che ne sapeva cento. Era curiosa
la sua barbetta spruzzata di calce.
- Se vi occorre
qualcosa, venite a trovarmi.
Mi ascoltò con gli
occhi socchiusi e fece un cenno d'intesa. Scomparve nella finestra.
A Nino dissi ogni
cosa. Glielo dissi per un senso di lealtà, di esultanza, e anche perché
l'avrebbe saputo egualmente.
Gli dissi la sera
stessa: - L'eremita non fa più l'eremita, è diventato muratore -. Nino ascoltò
impassibile e l'indomani traversò la piazza in quella direzione.
L'eremita ricoverava
sé e la capra nello scantinato di un ciabattino, sito tanto umido che vi
cresceva il capelvenere. La notte - mi disse Nino ridendo - era più sano non
dormirci e passare il tempo all'osteria e sui pagliai. Capii che Nino voleva
chiedermi, e non osava, ospitalità per l'eremita.
Colsi l'occasione e
gliela proposi io stesso. Ma non potevo prendermelo in casa; gli feci far posto
dai contadini sotto un portico. L'eremita lasciò il lavoro per venire a
ringraziarmi e io gli dissi di tenermi d'occhio Nino su quei ponti. L'altra
speranza era che Nino, non più impedito di vederlo, s'accorgesse ch'era un
villano come gli altri e se ne staccasse.
Ma Pietro non era un
villano come gli altri. Era stato perfino in qualche porto di mare e masticava
nel suo dialetto parole esotiche che rapivano Nino. Ormai che all'odore del
troglodita aveva sostituito quello della calce, capivo che il suo odore vero
era di salute, d'aria aperta e di sagacia animale. Mi sentivo più vecchio con
lui che con mio figlio. In quei giorni anche il fiume perse ogni interesse per
Nino. O meglio, il fiume in mia compagnia. Mentre se Pietro che non ne aveva
voglia lo avesse accompagnato, sarebbe stata per Nino la felicità.
Tuttavia in settembre
i muratori non lavorano troppo. I raccolti, e le feste che seguono, vuotano
tutti i cantieri: e chi va a tagliare il fieno, chi a staccare la meliga, chi a
spalmare le botti. Se non un giorno l'altro, Pietro e Nino partivano insieme:
c'era sempre qualche cascina, qualche campo, da cui giungeva sul vento eco di
fisarmoniche e di canti; e una volta o due Nino tornò solo, correndo; un'altra
volta tornò tardi e scontroso, e finalmente un mattino passarono lui e Pietro
per chiedermi il permesso di restare fuori fino a notte. Stavolta non fu
contraria nemmeno la zia, che capiva una festa sull'aia.
A una sfogliatura che
poteva durare fin sotto l'alba, Nino per poterci restare insistette che
l'accompagnassi. Anche Pietro mi disse d'andarci perché non c'è di peggio che
aspettare chi tarda.
Fu quella notte che
vidi Pietro ballare e Nino prendersi gli scapaccioni perché lo rincorreva. Era
buio sull'aia e i discorsi e la musica eccitavano, ma provavo una gran pena a
osservare con quanta disinvoltura Nino obbediva al suo amico e nemmeno
brontolava come avrebbe fatto con me.
Verso la fine della
festa Nino cascava di sonno e Pietro lo prese in spalla e ce ne venimmo via.
Eravamo taciturni, come sempre succede dopo ogni festa e disordine; il fresco
di settembre ci teneva svegli.
- Non ce l'avete una
moglie da qualche parte, Pietro?
- No, - disse Pietro.
- Mai farle ballare due volte. Fuggire la tentazione -. Rideva.
- Dico per i
figlioli. Sareste un buon padre. Lo vedete come vi cercano.
- Se fossi padre non
mi cercherebbero. Li farei lavorare. Quanto più presto imparano che l'unica
cosa è l'allegria e saper fare da sé, tanto meglio. Anche il vostro.
Ai piedi della
collina Pietro se lo tolse di spalla, lo posò a terra e lo costrinse a
camminare. Nino aperse appena gli occhi, abbandonò una mano a ciascuno di noi e
venne avanti a testa bassa.
- Era per stare
allegro che facevate l'eremita?
- Sono le donne che
mi han detto l'Eremita. Venivano su, mica le spose, e cominciavano a segnarsi.
Allora l'ho capita e mi segnavo anch'io... Si sta bene da soli.
- Mi preoccupa questo
ragazzo. Sempre nei pericoli.
- Ah! verrà grande
anche lui.
Quella notte del
ritorno l'ho nel cuore come l'ultima dell'infanzia di Nino. I canti, la
stanchezza, l'eccitazione sotto la luna me ne hanno fatto qualcosa d'irreale e
di triste. Voglio quasi bene a quel Pietro; si direbbe che il bambino fui io. E
l'indomani Nino, come se lo sapesse, restò nell'orto a leggicchiare e venne a
pranzo contento e ancora assonnato. Parlò dell'uva che cominciava ad annerire.
Quando gli chiesi se non veniva a bagnarsi, fece una smorfia e allegò la stanchezza.
La zia fu contenta e Nino scomparve fino all'ora di cena. Stanco ero anch'io, e
vagamente rassegnato.
Quando il dottore mi
disse che potevo averne per un mese e fece chiudere le imposte, volli che
venisse Nino, e gli dissi di non maltrattare la zia e rincasare regolarmente.
Non era questo che intendevo, tante cose mi turbinavano nel cervello, ma non
seppi dirgli altro e avevo la febbre. Nino mi ascoltò ai piedi del letto, con
l'aria sospesa di chi ha interrotto per un momento un'altra vita.
Stetti malato più di
un mese. Non ricordo le giornate perché per me non esistettero giornate. Passai
un periodo di delirio e d'incoscienza. Mi curava sollecita la zia, veniva il
dottore, venne Pietro a informarsi. Vedevo Nino qualche volta.
Quando fui
convalescente e ripresi il piacere di guardarmi attorno, nella mia debolezza
m'inteneriva il pensiero d'esser come rinato. Nino venne a trovarmi. Ritornavo
alle vecchie abitudini come a cose nuove. Era la fine di ottobre e anche Nino
viveva una vita insolita, perché avremmo dovuto essere già tutti in città e lui
a scuola. Bisognava far presto, per non danneggiare i suoi studi.
Nino era servizievole
e affettuoso più che in passato, e mi parve anche cresciuto e più sicuro di sé.
Ma quando rientrava togliendosi l'impermeabile - la vendemmia era finita da
tempo - girava per la casa e rispondeva e si presentava come chi non ha conti
da rendere a nessuno.
Che la zia dicesse
guardandolo tollerante: - Non è stato cattivo in questo mese, - mi parve
assurdo e quasi comico.
Anche Nino sorrideva.
Alla cascina, dove
feci le prime passeggiate, seppi che Pietro li aveva aiutati nella vendemmia e
nei lavori, e ora viveva senza far nulla, sugli avanzi delle giornate da
muratore. Siccome saremmo partiti per la città fra poco, lo andai a cercare e
gli proposi di tenerlo in cascina come bracciante, non più sotto il portico ma
nella stalla. Pietro mi trovò buona cera, e mi rispose che aveva intenzione di
vendere la capra e muoversi un po'. Il mondo è grande. Allora gli regalai cento
lire, con un senso di sollievo.
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