dipinto di Sir Lawrence Alma Tadema
da “Il canto di
Penelope” - Margaret Atwood
(…)
25
Cuore di pietra
Mentre scendevo le
scale, riflettei su quale fosse per me il miglior modo di comportarmi. Quando
Euriclea mi riferì che a uccidere i pretendenti era stato Odisseo, avevo finto
di non crederle. Forse, avevo suggerito, quell’uomo vestito come un mendicante
era un impostore, e poi sarei riuscita a riconoscere Odisseo dopo vent’anni?
Avrei voluto sapere
anche come gli ero sembrata. Ero molto giovane quando era partito, adesso ero
una donna matura. Era rimasto deluso?
Decisi di farlo
aspettare, dopotutto avevo aspettato tanto anch’io. Mi occorreva anche un po’
di tempo per nascondere ciò che provavo al pensiero della miseranda
impiccagione delle mie dodici, giovani ancelle.
Perciò, quando entrai
nella sala e lo vidi lì seduto, non proferii parola. Telemaco non perse tempo:
quasi subito mi rimproverò per non aver accolto suo padre più affettuosamente,
accusandomi di avere un cuore di pietra. Vedevo benissimo il roseo quadretto
che aveva in mente: loro due fianco a fianco contro di me, due uomini adulti, due
galli a comandare il pollaio. Io, che avevo sempre desiderato per lui il meglio
dalla vita, com’è naturale desiderare per un figlio, e mi ero augurata di
vederlo diventare un grande capo politico, un guerriero o qualunque altra cosa
desiderasse, in quel momento avrei voluto che scoppiasse un’altra guerra di
Troia perché partisse e mi si levasse di torno. I ragazzi, quando si accorgono
che comincia a spuntargli la barba, diventano insopportabili.
Non ero contraria a
incoraggiare l’idea della mia durezza di cuore, perché era utile a rassicurare
Odisseo che non mi sarei gettata tra le braccia del primo venuto che si fosse spacciato
per lui. Guardandolo con un viso privo di espressione, sostenni che era troppo difficile
per me vedere in quel vagabondo, sporco, imbrattato di sangue, il mio bel
marito, che nei suoi ricchi abiti eleganti era partito su una nave vent’anni
prima.
Odisseo rise - si era
aspettato la scena drammatica in cui, gettandogli le braccia al collo, io avrei
gridato: «Ma eri tu! Eri tu! Un travestimento stupendo!». Così, decise di fare
un bagno, più che necessario. Quando ritornò, con vestiti puliti e un odore
molto diverso da prima, non potei resistere dal prenderlo in giro un’ultima
volta. Ordinai a Euriclea di spostare il letto di Odisseo fuori dalla stanza e
di prepararlo per il forestiero.
Come ho già
raccontato, una colonna di quel letto era stata intagliata nel tronco di un albero
che aveva le sue radici ancora nel terreno. Nessuno lo sapeva eccetto Odisseo,
io e l’ancella Attoride, che avevo portato con me da Sparta e che era morta da
tempo.
Odisseo, credendo che
qualcuno avesse segato la sua cara colonna, in un attimo perse la calma. Solo
allora smisi di fingere, celebrando il suo ritorno. Versai un adeguato numero di
lacrime, lo abbracciai e gli spiegai che aveva superato la prova della colonna
del letto e mi aveva infine convinta.
E così entrammo in
quel letto dove avevamo passato tante ore felici quando eravamo appena sposati,
prima che Elena si mettesse in testa di fuggire con Paride, accendendo i fuochi
della guerra e portando la desolazione in casa mia. Era buio, ma ero contenta perché
non si vedevano le rughe, né le mie né le sue.
«Non siamo più due
bambini» bisbigliai.
«Quel che siamo
siamo» mi rispose Odisseo.
Dopo un po’, di nuovo
felici di stare insieme, riprendemmo la vecchia abitudine di raccontare.
Odisseo mi parlò dei suoi viaggi e delle sue avventure nella loro versione più nobile,
dove i protagonisti erano mostri e dèe, e non meretrici e luridi proprietari di
locande. Mi riferì tutte le fandonie che aveva inventato, i falsi nomi che si
era attribuito - «Nessuno» mi era parso il più divertente, anche perché il
Ciclope ci era cascato, ma Odisseo se ne vantò tanto da sciupare in parte
l’effetto -, le false identità dietro le quali si era nascosto per raggiungere
i propri scopi. Io, a mia volta, gli parlai dei pretendenti, dei trucchi per
sviarli e metterli l’uno contro l’altro, del sudario per Laerte che non finivo
mai di tessere.
Lui confessò di avere
sentito molto la mia mancanza e che mi aveva desiderata anche quando era tra le
braccia di una dèa; io risposi che avevo pianto per vent’anni in attesa del suo
ritorno e che gli ero stata fedele fino a diventare noiosa, perché mai e poi
mai avrei profanato quel letto enorme e la sua meravigliosa colonna.
Eravamo - lo
ammettevamo noi stessi - due esperti e spudorati bugiardi ormai da molto tempo.
Ed è strano che ciascuno abbia creduto ciecamente alle parole dell’altro. Eppure
è così. O così ci siamo detti.
Appena tornato,
Odisseo ripartì. Mi consolò dicendo che, per quanto non sopportasse il pensiero
di lasciarmi, doveva intraprendere un nuovo avventuroso viaggio. Lo spirito dell’indovino
Tiresia gli aveva annunciato che per purificarsi avrebbe dovuto trasportare un
remo all’interno della regione, molto lontano, finché la gente non avesse
scambiato quel remo per un ventilabro. Solo allora avrebbe lavato dalla sua
persona il sangue dei pretendenti, evitando la vendetta dei loro spiriti e
quella dei parenti rimasti. Allora anche Poseidone, che voleva punirlo per aver
accecato il ciclope Polifemo, suo figlio, si sarebbe placato. Una storia a cui
credere. Ma a tutte le sue storie si poteva credere.
traduzione
di G. Aurelio Privitera
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