opera di Karen Hull
da “Cronache di un gatto viaggiatore” - Hiro Arikawa
«Ti fa male? Sì che ti fa male, eh!»
Non farmi domande ovvie, accidenti! Aiuta un povero gatto ferito!
«Mi sono svegliato sentendo che mi chiamavi disperato. Perché tu mi stavi chiamando, non è vero?»
Sì, ti ho chiamato, ti ho chiamato. Ti sto chiamando da un bel po’! E tu sei un tantino lento.
«Hai pensato che almeno io ti avrei aiutato in qualche modo, giusto?»
Sì, anche se non era quella la mia vera intenzione.
Stavo per trattarlo male, quando il ragazzo ha iniziato chissà perché a tirare su con il naso.
Ma che fai? Piangi? Non sei tu che devi piangere!
«Sei stato proprio bravo a ricordarti di me.»
I gatti non piangono come gli esseri umani. Però… non so perché, ma in quel momento mi è sembrato di comprendere che cosa significhi piangere.
Quando ho creduto di non farcela più mi sei venuto in mente proprio tu. Ho pensato che, se fossi arrivato fin qui, in qualche modo me la sarei cavata. Ma senti un po’… Tu farai qualcosa per me, vero? Mi fa male, mi fa male da morire. Mi fa troppo male e ho paura: che ne sarà di me?
«Su, coraggio. Ora andrà tutto bene.»
Il ragazzo mi ha infilato dentro uno scatolone in cui aveva disteso un morbido asciugamani e poi mi ha fatto salire sulla station wagon argento. Si è diretto verso l’ospedale veterinario. E qui ometto descrizioni dettagliate di quel posto: il più atroce della mia vita. Per tutti gli animali l’ospedale è il luogo in cui non si sognerebbero mai di ritornare, per cui non vi annoio con il racconto del mio caso.
È stato deciso che finché la ferita non fosse guarita sarei andato a stare nell’appartamento del ragazzo. Era un posto semplice e pulito, in cui viveva da solo. Nell’antibagno aveva messo la mia vaschetta e in cucina le ciotole per il cibo e l’acqua.
Magari non si direbbe, ma io sono un gatto intelligente e beneducato, perciò ho imparato a usare il mio bagno al primo colpo e non l’ho mai fatta fuori. E anche le unghie non me le sono mai affilate dove non potevo.
Siccome pareva che fosse un problema se lo avessi fatto sui muri e sui pilastri, ho cercato di farlo solo sui mobili e sulla moquette. Il ragazzo non mi aveva detto che era assolutamente vietato sui mobili e sulla moquette (all’inizio faceva una faccia un po’ dispiaciuta, ma io sono un gatto capace di fiutare le situazioni e quindi so distinguere le cose vietate da quelle che non lo sono poi tanto. I mobili e la moquette non erano tra quelle assolutamente vietate).
Ci sono voluti più o meno due mesi prima che l’osso si saldasse e potessi rimuovere i punti. Nel frattempo avevo saputo il nome del ragazzo: Satoru Miyawaki. Satoru invece mi chiamava per tutto il tempo «tu», o «gatto», oppure «signor gatto», a seconda dell’umore del momento. Ed era ovvio, visto che non avevo un nome.
Traduzione dal giapponese di Daniela Guarino
«Ti fa male? Sì che ti fa male, eh!»
Non farmi domande ovvie, accidenti! Aiuta un povero gatto ferito!
«Mi sono svegliato sentendo che mi chiamavi disperato. Perché tu mi stavi chiamando, non è vero?»
Sì, ti ho chiamato, ti ho chiamato. Ti sto chiamando da un bel po’! E tu sei un tantino lento.
«Hai pensato che almeno io ti avrei aiutato in qualche modo, giusto?»
Sì, anche se non era quella la mia vera intenzione.
Stavo per trattarlo male, quando il ragazzo ha iniziato chissà perché a tirare su con il naso.
Ma che fai? Piangi? Non sei tu che devi piangere!
«Sei stato proprio bravo a ricordarti di me.»
I gatti non piangono come gli esseri umani. Però… non so perché, ma in quel momento mi è sembrato di comprendere che cosa significhi piangere.
Quando ho creduto di non farcela più mi sei venuto in mente proprio tu. Ho pensato che, se fossi arrivato fin qui, in qualche modo me la sarei cavata. Ma senti un po’… Tu farai qualcosa per me, vero? Mi fa male, mi fa male da morire. Mi fa troppo male e ho paura: che ne sarà di me?
«Su, coraggio. Ora andrà tutto bene.»
Il ragazzo mi ha infilato dentro uno scatolone in cui aveva disteso un morbido asciugamani e poi mi ha fatto salire sulla station wagon argento. Si è diretto verso l’ospedale veterinario. E qui ometto descrizioni dettagliate di quel posto: il più atroce della mia vita. Per tutti gli animali l’ospedale è il luogo in cui non si sognerebbero mai di ritornare, per cui non vi annoio con il racconto del mio caso.
È stato deciso che finché la ferita non fosse guarita sarei andato a stare nell’appartamento del ragazzo. Era un posto semplice e pulito, in cui viveva da solo. Nell’antibagno aveva messo la mia vaschetta e in cucina le ciotole per il cibo e l’acqua.
Magari non si direbbe, ma io sono un gatto intelligente e beneducato, perciò ho imparato a usare il mio bagno al primo colpo e non l’ho mai fatta fuori. E anche le unghie non me le sono mai affilate dove non potevo.
Siccome pareva che fosse un problema se lo avessi fatto sui muri e sui pilastri, ho cercato di farlo solo sui mobili e sulla moquette. Il ragazzo non mi aveva detto che era assolutamente vietato sui mobili e sulla moquette (all’inizio faceva una faccia un po’ dispiaciuta, ma io sono un gatto capace di fiutare le situazioni e quindi so distinguere le cose vietate da quelle che non lo sono poi tanto. I mobili e la moquette non erano tra quelle assolutamente vietate).
Ci sono voluti più o meno due mesi prima che l’osso si saldasse e potessi rimuovere i punti. Nel frattempo avevo saputo il nome del ragazzo: Satoru Miyawaki. Satoru invece mi chiamava per tutto il tempo «tu», o «gatto», oppure «signor gatto», a seconda dell’umore del momento. Ed era ovvio, visto che non avevo un nome.
Traduzione dal giapponese di Daniela Guarino
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