«Io sono un gatto. Un nome ancora non ce l’ho.»
Pare lo abbia detto un gatto importante che viveva in questo
paese. Non so quanto importante fosse, ma almeno in una cosa lo batto di certo:
perché io un nome invece ce l’ho.
Che poi mi piaccia o no, è un altro discorso. Il fatto è che
trovo oltraggioso che mi sia stato dato un nome che non si addice affatto al
mio sesso. Me lo sono beccato all’incirca cinque anni fa, proprio nel periodo
in cui ho raggiunto l’età adulta. Infatti, anche se ci sono varie teorie sul
come convertire l’età felina in età umana, tutte sono concordi nel considerare genericamente
un gatto di un anno come un uomo di venti.
All’epoca il mio posto preferito per dormire era sopra il
cofano di una station wagon color argento che stava nel parcheggio di una
palazzina. Mi piaceva dormirci perché da lì non venivo scacciato con umilianti
«sciò! sciò!». Le creature chiamate esseri umani, pur essendo nient’altro che
grosse scimmie capaci di camminare dritte, sono terribilmente arroganti. Prima lasciano
le auto sotto le intemperie e poi guai se un gatto ci passa sopra: ma che
diavolo hanno in testa? Noi gatti ce ne possiamo andare tranquilli in lungo e
in largo per tutte le strade del mondo! Se però per errore lasciamo un’impronta
sul cofano di una macchina, allora il proprietario si strappa i capelli e viene
a scacciarci.
Traduzione dal
giapponese di Daniela Guarino
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