Claude Monet- La Pointe de la Hève, Sainte-Adresse (detail)
da “Il canto di Penelope” - Margaret Atwood
(…)
9
La chioccia fidata
Il viaggio in mare fino a Itaca fu lungo e pericoloso, segnato da frequenti attacchi di nausea, o almeno è così che lo ricordo. Per la maggior parte del tempo stavo distesa o vomitavo, qualche volta tutt’e due insieme. Forse avevo un’avversione per il mare a causa della mia esperienza infantile, o forse il dio del mare, Poseidone, era ancora irritato per non essere riuscito a divorarmi.
Non vidi molto, quindi, della bellezza del cielo e delle nuvole che Odisseo mi descriveva quando, raramente, veniva a trovarmi. Si trovava quasi sempre a prua, (così mi piaceva immaginarlo) con lo sguardo fisso davanti a sé, e osservava l’orizzonte con occhi di falco, per evitare scogli, serpenti marini e altri pericoli; oppure si metteva al timone o in qualche altro modo dirigeva la rotta della nave - io non potevo saperlo, perché non avevo mai viaggiato per mare in vita mia.
Dal giorno del matrimonio si era accresciuta in me la stima per Odisseo, lo ammiravo immensamente e avevo un concetto forse eccessivo delle sue capacità - non bisogna dimenticare che avevo quindici anni - tanto da nutrire la massima fiducia in lui e da considerarlo un navigatore infallibile.
Finalmente arrivammo a Itaca e attraccammo nel porto circondato da ripide alture rocciose. Delle vedette e alcuni fuochi accesi segnalavano il nostro arrivo, perché erano in molti ad aspettarci. Lanciavano grida di benvenuto e si spingevano l’un l’altro per vedere come fossi, mentre mi aiutavano a scendere a riva - ero la prova evidente che Odisseo aveva adempiuto al suo compito ed era tornato con una sposa nobile e con i doni preziosi che l’accompagnavano.
Quella sera venne celebrata una festa per i nobili dell’isola. Io mi presentai con un velo luccicante e una delle mie più belle tuniche ricamate, seguita da un’ancella che avevo portato con me. L’ancella era un regalo di nozze di mio padre, si chiamava Attoride ed era tutt’altro che felice di trovarsi a Itaca. Non avrebbe voluto lasciare la ricchezza del palazzo di Sparta e le amiche che aveva tra la servitù, e io la capivo. Non era molto giovane - perfino mio padre non sarebbe stato così sciocco da mettermi accanto una fanciulla in fiore, che avrebbe potuto attirare le attenzioni di Odisseo, tanto più che faceva parte dei suoi compiti restare di sentinella tutta la notte davanti alla porta della nostra camera da letto per impedire che qualcuno ci disturbasse - e non sarebbe vissuta a lungo, lasciandomi sola a Itaca, straniera tra gente estranea.
Piansi molto, di nascosto, in quei giorni lontani. Volevo che Odisseo non si accorgesse di quanto fossi infelice, non volevo sembrare ingrata. Lui era attento e premuroso, com’era stato fin dal principio, anche se mi trattava come un adulto tratta un bambino. Lo sorprendevo a guardarmi, con la testa inclinata da un lato, la mano sul mento, come se fossi un enigma da risolvere; ma scoprii presto che faceva sempre così, tutto lo incuriosiva.
Una volta disse che ognuno di noi ha una porta segreta, che conduce al cuore, e che il suo orgoglio era di riuscire ad aprire quella porta. Perché il cuore era sia chiave sia serratura e lui, che conosceva a fondo il cuore degli uomini e i suoi segreti, era già sulla strada che portava a controllare il proprio destino. Ma, si affrettò ad aggiungere, non c’era uomo che vi riuscisse fino in fondo. Neanche gli dei erano più potenti delle tre sorelle, le Parche, che avevano nelle mani il destino dell’uomo. Non pronunciava mai i loro nomi senza sputare, per sfuggire alla mala sorte; rabbrividiva immaginandole nella loro cupa caverna, intente a filare le vite umane, a misurarle e a interromperle.
«Anche il mio cuore ha una porta segreta?» domandai con un tono che nelle intenzioni doveva essere seducente e civettuolo. «E tu l’hai scoperta?»
Odisseo sorrise. «Devi essere tu a dirmelo.»
«E tu, hai una porta per entrare nel tuo cuore? E io ne possiedo la chiave?» Arrossisco ancora al ricordo del mio tono carezzevole, era una domanda leziosa, che avrebbe potuto fare Elena. Odisseo si voltò, guardando fuori dalla finestra. «È entrata in porto una nave» esclamò cambiando discorso. «Una nave che non conosco.» Aggrottò la fronte.
«Aspetti forse notizie?»
«Aspetto sempre notizie.»
Itaca non era un paradiso. Spesso era battuta dal vento, le piogge erano frequenti. I nobili formavano una piccola comunità miserabile, erano diversi da quelli che ero solita frequentare; il palazzo, anche se lo spazio era sufficiente, non si poteva considerare grande.
C’erano rocce e capre, come mi avevano descritto quando ero a Sparta. Ma anche mucche, e pecore, e maiali, e grano per fare il pane; qualche volta, quando era la stagione, si poteva trovare qualche pera, una mela, o un fico; le provvigioni non mancavano, e a poco a poco mi abituai alla vita sull’isola. E poi, era importante avere un marito come Odisseo. Tutti facevano riferimento a lui, e in molti venivano a chiedergli un favore o un consiglio. Arrivavano anche da lontano, in nave, per consultarlo, perché aveva fama di un uomo che sapeva sciogliere qualsiasi nodo, anche se spesso stringendone un altro, più complicato.
Suo padre, Laerte, e sua madre, Anticlea, vivevano ancora a palazzo a quell’epoca. Anticlea sarebbe morta dopo aver passato anni davanti al mare in attesa del figlio ma anche a causa del suo sistema biliare difettoso; Laerte non era ancora andato a vivere in un tugurio, disperato per l’assenza del figlio, umiliandosi lavorando la terra. Tutto questo sarebbe successo dopo la partenza di Odisseo, ma per il momento nulla lo lasciava prevedere.
Mia suocera era cauta nei miei confronti. Aveva la bocca come una prugna secca e, sebbene mi avesse dato il benvenuto convenzionale, avevo l’impressione di non piacerle. Coglieva ogni occasione per rimarcare il fatto che ero davvero molto giovane. Odisseo le fece osservare, senza sorridere, che se era una colpa si sarebbe cancellata da sé con il passare del tempo. La donna che mi creò maggiori complicazioni, all’inizio, fu la vecchia nutrice di Odisseo, Euriclea. Era rispettata da tutti, almeno così pensava, per la sua affidabilità. Viveva a palazzo da quando era stata comprata da Laerte, che la stimava al punto da non essere mai andato a letto con lei. «Incredibile, per una schiava» andava cianciando lei, soddisfatta «e sì che ero molto bella a quel tempo!» Le ancelle mi spiegarono che a trattenere Laerte non era stato il rispetto per Euriclea, ma la paura di sua moglie, che non gli avrebbe dato pace se avesse avuto un’amante. «Anticlea sarebbe riuscita a gelare le palle anche a Elio» commentò una di loro. Sapevo che avrebbe dovuto essere punita per la sua sfrontatezza, ma non potei trattenermi dal ridere.
Euriclea si sentì in dovere di prendermi sotto le sue ali protettrici, mi portava in giro per il palazzo mostrandomi il posto riservato a ogni cosa. «Da noi si usa così» ripeteva. Avrei dovuto ringraziarla, con il cuore e con le labbra, perché non vi è niente di più imbarazzante di un errore di comportamento che riveli una scarsa considerazione per le abitudini di chi ci sta intorno. Coprirsi o no la bocca quando si ride? In quali occasioni indossare il velo e fino a che punto servirsene per coprire il viso? Con quale frequenza ordinare un bagno? Euriclea sapeva tutto. Fu una fortuna, perché Anticlea - cui sarebbe toccato occuparsene - si accontentava di restare seduta, in silenzio, con un risolino sulle labbra, aspettando di vedermi commettere qualche sciocchezza. Era felice di come il suo adorato Odisseo avesse concluso un matrimonio vantaggioso - su una principessa spartana c’era poco da arricciare il naso -, ma credo che lo sarebbe stata di più se fossi morta di mal di mare durante il viaggio a Itaca, e Odisseo fosse arrivato con la dote ma senza la sposa. La frase che mi rivolgeva più spesso era: «Hai l’aria di non sentirti bene».
E così, quando potevo, la evitavo e mi aggiravo per il palazzo con Euriclea, che almeno era più affabile. Era una fonte inesauribile di informazioni sulle famiglie nobili dell’isola, e da lei appresi molti riprovevoli particolari che più tardi mi sarebbero stati utili.
Parlava ininterrottamente. Nessuno quanto lei conosceva Odisseo e sapeva che cosa amava di più, e come andava trattato: non l’aveva forse nutrito al suo seno e allevato quando era piccolo, aiutandolo poi a crescere? Solo lei poteva preparargli il bagno, ungere le sue spalle con l’olio, provvedere alla colazione, proteggere i suoi oggetti di valore, scegliere i vestiti che doveva indossare. Non permetteva che facessi niente, non potevo svolgere il minimo incarico per mio marito, neanche un piccolo compito di quelli che vengono di solito affidati alla moglie, perché ogni volta era pronta a ripetermi che non era così che piaceva a Odisseo. Se tessevo una tunica per lui era troppo leggera o troppo pesante, troppo rigida o troppo inconsistente. «Può andar bene per il servo» diceva «non per Odisseo.»
Eppure, a suo modo, cercò di essere gentile con me. «Dovresti ingrassare un po’, così potrai dare a Odisseo un bel bambino robusto! È l’unico tuo dovere, al resto penso io.» Era quanto di più simile a un interlocutore avessi a disposizione - a parte Odisseo, naturalmente - e finii per accettarla.
Quando nacque Telemaco si rivelò indispensabile. Ho il dovere di dirlo. Pregava Artemide quando soffrivo troppo e non riuscivo a parlare, mi teneva le mani, mi asciugava la fronte; fu lei a prendere il bambino, a lavarlo e ad avvolgerlo in un panno caldo, perché, se c’era una cosa che conosceva bene - seguitava a ripetermi - era come allevare i bambini. Usava con loro un linguaggio speciale, senza senso, «Pai pai do do» canticchiava a Telemaco mentre lo asciugava dopo avergli fatto il bagno, «glau glau glo glo». Io pensavo al mio Odisseo dal torace forte e dalla voce profonda, esperto nella dialettica, multiforme, autorevole, e non riuscivo a immaginarlo come un bambino in braccio a Euriclea che gli gorgogliava quelle parole senza senso.
Ma non potevo essere gelosa dell’affetto che elargiva a Telemaco. Provava una gioia senza limiti nel prendersi cura di lui. Come se fosse suo figlio.
Odisseo era contento di me. Non c’era da meravigliarsi. «Elena non ha ancora avuto un figlio» diceva, e avrei dovuto esserne contenta. Lo ero, infatti. Ma perché lui pensava ancora - o avrei dovuto dire sempre - a Elena?
traduzione di G. Aurelio Privitera
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La chioccia fidata
Il viaggio in mare fino a Itaca fu lungo e pericoloso, segnato da frequenti attacchi di nausea, o almeno è così che lo ricordo. Per la maggior parte del tempo stavo distesa o vomitavo, qualche volta tutt’e due insieme. Forse avevo un’avversione per il mare a causa della mia esperienza infantile, o forse il dio del mare, Poseidone, era ancora irritato per non essere riuscito a divorarmi.
Non vidi molto, quindi, della bellezza del cielo e delle nuvole che Odisseo mi descriveva quando, raramente, veniva a trovarmi. Si trovava quasi sempre a prua, (così mi piaceva immaginarlo) con lo sguardo fisso davanti a sé, e osservava l’orizzonte con occhi di falco, per evitare scogli, serpenti marini e altri pericoli; oppure si metteva al timone o in qualche altro modo dirigeva la rotta della nave - io non potevo saperlo, perché non avevo mai viaggiato per mare in vita mia.
Dal giorno del matrimonio si era accresciuta in me la stima per Odisseo, lo ammiravo immensamente e avevo un concetto forse eccessivo delle sue capacità - non bisogna dimenticare che avevo quindici anni - tanto da nutrire la massima fiducia in lui e da considerarlo un navigatore infallibile.
Finalmente arrivammo a Itaca e attraccammo nel porto circondato da ripide alture rocciose. Delle vedette e alcuni fuochi accesi segnalavano il nostro arrivo, perché erano in molti ad aspettarci. Lanciavano grida di benvenuto e si spingevano l’un l’altro per vedere come fossi, mentre mi aiutavano a scendere a riva - ero la prova evidente che Odisseo aveva adempiuto al suo compito ed era tornato con una sposa nobile e con i doni preziosi che l’accompagnavano.
Quella sera venne celebrata una festa per i nobili dell’isola. Io mi presentai con un velo luccicante e una delle mie più belle tuniche ricamate, seguita da un’ancella che avevo portato con me. L’ancella era un regalo di nozze di mio padre, si chiamava Attoride ed era tutt’altro che felice di trovarsi a Itaca. Non avrebbe voluto lasciare la ricchezza del palazzo di Sparta e le amiche che aveva tra la servitù, e io la capivo. Non era molto giovane - perfino mio padre non sarebbe stato così sciocco da mettermi accanto una fanciulla in fiore, che avrebbe potuto attirare le attenzioni di Odisseo, tanto più che faceva parte dei suoi compiti restare di sentinella tutta la notte davanti alla porta della nostra camera da letto per impedire che qualcuno ci disturbasse - e non sarebbe vissuta a lungo, lasciandomi sola a Itaca, straniera tra gente estranea.
Piansi molto, di nascosto, in quei giorni lontani. Volevo che Odisseo non si accorgesse di quanto fossi infelice, non volevo sembrare ingrata. Lui era attento e premuroso, com’era stato fin dal principio, anche se mi trattava come un adulto tratta un bambino. Lo sorprendevo a guardarmi, con la testa inclinata da un lato, la mano sul mento, come se fossi un enigma da risolvere; ma scoprii presto che faceva sempre così, tutto lo incuriosiva.
Una volta disse che ognuno di noi ha una porta segreta, che conduce al cuore, e che il suo orgoglio era di riuscire ad aprire quella porta. Perché il cuore era sia chiave sia serratura e lui, che conosceva a fondo il cuore degli uomini e i suoi segreti, era già sulla strada che portava a controllare il proprio destino. Ma, si affrettò ad aggiungere, non c’era uomo che vi riuscisse fino in fondo. Neanche gli dei erano più potenti delle tre sorelle, le Parche, che avevano nelle mani il destino dell’uomo. Non pronunciava mai i loro nomi senza sputare, per sfuggire alla mala sorte; rabbrividiva immaginandole nella loro cupa caverna, intente a filare le vite umane, a misurarle e a interromperle.
«Anche il mio cuore ha una porta segreta?» domandai con un tono che nelle intenzioni doveva essere seducente e civettuolo. «E tu l’hai scoperta?»
Odisseo sorrise. «Devi essere tu a dirmelo.»
«E tu, hai una porta per entrare nel tuo cuore? E io ne possiedo la chiave?» Arrossisco ancora al ricordo del mio tono carezzevole, era una domanda leziosa, che avrebbe potuto fare Elena. Odisseo si voltò, guardando fuori dalla finestra. «È entrata in porto una nave» esclamò cambiando discorso. «Una nave che non conosco.» Aggrottò la fronte.
«Aspetti forse notizie?»
«Aspetto sempre notizie.»
Itaca non era un paradiso. Spesso era battuta dal vento, le piogge erano frequenti. I nobili formavano una piccola comunità miserabile, erano diversi da quelli che ero solita frequentare; il palazzo, anche se lo spazio era sufficiente, non si poteva considerare grande.
C’erano rocce e capre, come mi avevano descritto quando ero a Sparta. Ma anche mucche, e pecore, e maiali, e grano per fare il pane; qualche volta, quando era la stagione, si poteva trovare qualche pera, una mela, o un fico; le provvigioni non mancavano, e a poco a poco mi abituai alla vita sull’isola. E poi, era importante avere un marito come Odisseo. Tutti facevano riferimento a lui, e in molti venivano a chiedergli un favore o un consiglio. Arrivavano anche da lontano, in nave, per consultarlo, perché aveva fama di un uomo che sapeva sciogliere qualsiasi nodo, anche se spesso stringendone un altro, più complicato.
Suo padre, Laerte, e sua madre, Anticlea, vivevano ancora a palazzo a quell’epoca. Anticlea sarebbe morta dopo aver passato anni davanti al mare in attesa del figlio ma anche a causa del suo sistema biliare difettoso; Laerte non era ancora andato a vivere in un tugurio, disperato per l’assenza del figlio, umiliandosi lavorando la terra. Tutto questo sarebbe successo dopo la partenza di Odisseo, ma per il momento nulla lo lasciava prevedere.
Mia suocera era cauta nei miei confronti. Aveva la bocca come una prugna secca e, sebbene mi avesse dato il benvenuto convenzionale, avevo l’impressione di non piacerle. Coglieva ogni occasione per rimarcare il fatto che ero davvero molto giovane. Odisseo le fece osservare, senza sorridere, che se era una colpa si sarebbe cancellata da sé con il passare del tempo. La donna che mi creò maggiori complicazioni, all’inizio, fu la vecchia nutrice di Odisseo, Euriclea. Era rispettata da tutti, almeno così pensava, per la sua affidabilità. Viveva a palazzo da quando era stata comprata da Laerte, che la stimava al punto da non essere mai andato a letto con lei. «Incredibile, per una schiava» andava cianciando lei, soddisfatta «e sì che ero molto bella a quel tempo!» Le ancelle mi spiegarono che a trattenere Laerte non era stato il rispetto per Euriclea, ma la paura di sua moglie, che non gli avrebbe dato pace se avesse avuto un’amante. «Anticlea sarebbe riuscita a gelare le palle anche a Elio» commentò una di loro. Sapevo che avrebbe dovuto essere punita per la sua sfrontatezza, ma non potei trattenermi dal ridere.
Euriclea si sentì in dovere di prendermi sotto le sue ali protettrici, mi portava in giro per il palazzo mostrandomi il posto riservato a ogni cosa. «Da noi si usa così» ripeteva. Avrei dovuto ringraziarla, con il cuore e con le labbra, perché non vi è niente di più imbarazzante di un errore di comportamento che riveli una scarsa considerazione per le abitudini di chi ci sta intorno. Coprirsi o no la bocca quando si ride? In quali occasioni indossare il velo e fino a che punto servirsene per coprire il viso? Con quale frequenza ordinare un bagno? Euriclea sapeva tutto. Fu una fortuna, perché Anticlea - cui sarebbe toccato occuparsene - si accontentava di restare seduta, in silenzio, con un risolino sulle labbra, aspettando di vedermi commettere qualche sciocchezza. Era felice di come il suo adorato Odisseo avesse concluso un matrimonio vantaggioso - su una principessa spartana c’era poco da arricciare il naso -, ma credo che lo sarebbe stata di più se fossi morta di mal di mare durante il viaggio a Itaca, e Odisseo fosse arrivato con la dote ma senza la sposa. La frase che mi rivolgeva più spesso era: «Hai l’aria di non sentirti bene».
E così, quando potevo, la evitavo e mi aggiravo per il palazzo con Euriclea, che almeno era più affabile. Era una fonte inesauribile di informazioni sulle famiglie nobili dell’isola, e da lei appresi molti riprovevoli particolari che più tardi mi sarebbero stati utili.
Parlava ininterrottamente. Nessuno quanto lei conosceva Odisseo e sapeva che cosa amava di più, e come andava trattato: non l’aveva forse nutrito al suo seno e allevato quando era piccolo, aiutandolo poi a crescere? Solo lei poteva preparargli il bagno, ungere le sue spalle con l’olio, provvedere alla colazione, proteggere i suoi oggetti di valore, scegliere i vestiti che doveva indossare. Non permetteva che facessi niente, non potevo svolgere il minimo incarico per mio marito, neanche un piccolo compito di quelli che vengono di solito affidati alla moglie, perché ogni volta era pronta a ripetermi che non era così che piaceva a Odisseo. Se tessevo una tunica per lui era troppo leggera o troppo pesante, troppo rigida o troppo inconsistente. «Può andar bene per il servo» diceva «non per Odisseo.»
Eppure, a suo modo, cercò di essere gentile con me. «Dovresti ingrassare un po’, così potrai dare a Odisseo un bel bambino robusto! È l’unico tuo dovere, al resto penso io.» Era quanto di più simile a un interlocutore avessi a disposizione - a parte Odisseo, naturalmente - e finii per accettarla.
Quando nacque Telemaco si rivelò indispensabile. Ho il dovere di dirlo. Pregava Artemide quando soffrivo troppo e non riuscivo a parlare, mi teneva le mani, mi asciugava la fronte; fu lei a prendere il bambino, a lavarlo e ad avvolgerlo in un panno caldo, perché, se c’era una cosa che conosceva bene - seguitava a ripetermi - era come allevare i bambini. Usava con loro un linguaggio speciale, senza senso, «Pai pai do do» canticchiava a Telemaco mentre lo asciugava dopo avergli fatto il bagno, «glau glau glo glo». Io pensavo al mio Odisseo dal torace forte e dalla voce profonda, esperto nella dialettica, multiforme, autorevole, e non riuscivo a immaginarlo come un bambino in braccio a Euriclea che gli gorgogliava quelle parole senza senso.
Ma non potevo essere gelosa dell’affetto che elargiva a Telemaco. Provava una gioia senza limiti nel prendersi cura di lui. Come se fosse suo figlio.
Odisseo era contento di me. Non c’era da meravigliarsi. «Elena non ha ancora avuto un figlio» diceva, e avrei dovuto esserne contenta. Lo ero, infatti. Ma perché lui pensava ancora - o avrei dovuto dire sempre - a Elena?
traduzione di G. Aurelio Privitera
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