(…)
Le palline
Come
per i coperchini, ognuno di noi aveva una discreta dotazione di palline di terracotta,
più qualcuna, rara e preziosa, di vetro.
Le
palline venivano messe in gioco, nel senso che si potevano vincere o perdere. Il
nostro sistema di gioco era il “castellino”, e cioè, stabilito quante palline c’erano
in palio, se ne sistemavano tre l’una accanto all’altra e se ne aggiungeva una
in cima. Si decideva poi a che distanza tirare un’altra pallina - questa, di
solito, di vetro. Se abbattevi il castellino, lo vincevi. In Appennino, con
gente più intimamente legata alla terra, con questo sistema potevi giocarti delle
noci.
Si
tirava a mano e le palline che non avevano colpito nulla rimanevano sul terreno;
se qualche castellino restava in piedi, il gioco riprendeva dal giocatore con
la pallina andata più lontano.
Per
colpire invece un’altra pallina o fare una gara, diciamo, di fondo, il modo di tiro
era diverso: potevi tirare da terra con il normale cricco (sistema cittadino),
o col complesso sistema appenninico, consistente nell’appoggiare la pallina fra
pollice e indice e poi, piantato il mignolo a terra, sparare il colpo. Questo
metodo barocco era bello a vedersi ma di difficile realizzazione, oppure
richiedeva davvero grande abilità e lunga pratica. Provai a importarlo in città
ma venne prestamente rifiutato. Mi si dice invece che a Bologna usavano questo
particolare tiro con regole ferree, tipo “palmo”, cioè la distanza dalla quale
potevi tirare, e “cicato”, forse il suono della pallina che bocciava contro
un’altra. Ma non ho capito bene, cito queste cose solo per evidenziare l’enorme
complessità di regole dei giochi di noi ragazzi di allora.
Si
giocava anche a una specie di golf: dopo aver scavato una serie di buchette (amici
di Bologna mi hanno raccontato che estraevano cubetti di porfido dal manto
stradale. Dopo li rimettevano a posto, certo!), si faceva il percorso di buca in
buca con una pallina. Ma era un gioco piuttosto statico e lo si praticava abbastanza
di rado.
Questo
invece il prediletto. Nel dopoguerra fiorivano in ogni dove cantieri di case in
costruzione, che avevano, a fianco, deliziosi mucchi di sabbia umida. Quando i
muratori, alla sera, smontavano, i mucchi venivano presi d’assalto e piccole
operose mani costruivano piste con audaci gallerie e arditi ponti in salita, deliziose
curve a gomito e numerosi tourniquet: il tutto in vista di un altro Giro d’Italia,
non più con i tappini ma con le palline. Mi dicono che un gioco simile veniva fatto,
in anni più recenti, al mare, usando sfere di plastica con l’immagine di un
corridore ciclista o automobilista. Mi sembra però si tratti di pallida imitazione
del nostro gioco, che aveva una caratteristica di selvaggia improvvisazione in
più e anche il piacere del proibito, che comportava l’ingresso di soppiatto nel
cantiere dopo essersi assicurati della mancanza del guardiano, e la triste
certezza che sicuramente, il giorno dopo, i rudi muratori avrebbero distrutto con
nonscialanza il nostro capolavoro di pista, per costruirci banali case.
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