John William Godward Belleza clásica
da “Il canto di
Penelope” - Margaret Atwood
(…)
7
La cicatrice
E
così fui consegnata a Odisseo, come un pacco di carne. Ma un pacco di carne in
carta d’oro, badate bene. Un dorato budino di sangue.
Forse
il paragone può apparire volgare. Vorrei aggiungere che la carne era molto apprezzata
da noi - i nobili ne mangiavano molta, carne, carne, carne, ma l’arrostivano soltanto:
non era un’epoca da haute cuisine. Ah, dimenticavo: c’era anche il pane, pane
di segale, pane, pane, pane, e vino, vino, vino. Avevamo in più la frutta e la
verdura, ma probabilmente nessuno ne ha sentito parlare, perché non compaiono
nei poemi.
Gli
dèi amavano la carne come noi, ma non avevano mai mangiato altro che le ossa e
il grasso, a causa di un brutto scherzo che Prometeo aveva fatto a Giove: solo
un idiota si sarebbe lasciato ingannare da un mucchio di ossa di bue spolpate e
fatte passare per buone, e Zeus ci era cascato; questo basti a dimostrare come
gli dèi non fossero sempre intelligenti come volevano farci credere.
Ora
lo posso dire perché sono morta. Prima non ne avrei avuto il coraggio. Non si
può mai essere sicuri che un dio non sia in ascolto, nei panni di un
mendicante, di un vecchio amico o di un forestiero. Veramente io, qualche volta,
ho addirittura dubitato che esistessero gli dèi, ma finché sono stata in vita,
mi è parso prudente non correre rischi.
C’era
di tutto, e in grande quantità, al mio banchetto nuziale - grandi pezzi di
carne lucenti, grandi pagnotte fragranti, grandi caraffe di vino pastoso. Gli
ospiti si rimpinzavano al punto che sembrava dovessero scoppiare da un momento
all’altro. L’esperienza mi ha insegnato, in seguito, che niente accresce
l’ingordigia come il cibo che non si è pagato.
Mangiavamo
con le mani, allora. Era necessario rosicchiare e masticare con energia, ma era
meglio così - non si usavano utensili appuntiti che, non si sa mai, qualcuno
poteva brandire e affondare nel corpo di un ospite che lo aveva infastidito. A
ogni matrimonio preceduto da una gara, c’era sempre qualche contendente
sconfitto e amareggiato, ma alla mia festa, nessuno perse la calma, era più o
meno come se avessero perso un’asta per un cavallo.
Il
vino era di una miscela troppo forte e molti avevano la testa confusa. Anche
mio padre, il re Icario, era ubriaco. Sospettava che Tindaro e Odisseo gli
avessero teso una trappola, era quasi sicuro di essere stato ingannato, ma non
riusciva a capire come, perciò era arrabbiato e più era arrabbiato e più beveva
e faceva commenti offensivi sugli antenati degli ospiti. Ma era il re e non ci
furono duelli.
Odisseo
no, non era ubriaco. Aveva un modo speciale di lasciar credere che stesse bevendo
molto, mentre in realtà non era vero. Mi spiegò più tardi che se un uomo viveva
della propria intelligenza, come lui, doveva averla sempre pronta, affilata
come una scure o una spada. Solo gli sciocchi, diceva, si vantavano di quanto
riuscivano a bere, si misuravano tra loro per vedere chi reggesse di più,
perdevano la concentrazione, le forze, ed era allora che il nemico riusciva a
colpirli.
Quanto
a me, quel giorno non toccai cibo. Ero troppo agitata. Rimasi seduta, avvolta
nel mio velo da sposa, e quasi non osai guardare Odisseo. Ero certa che sarebbe
rimasto deluso quando avesse sollevato il velo e si fosse fatto strada
attraverso il mantello, la cintura e la tunica lucente con cui mi avevano
vestita. Ma lui non mi guardava e neanche gli altri. Ammiravano tutti Elena,
che dispensava sorrisi abbaglianti, senza trascurare nessuno degli uomini
presenti. Aveva un modo di sorridere che autorizzava ciascuno a pensare che si
fosse innamorata proprio di lui.
È
stata una fortuna che Elena abbia attirato su di sé l’attenzione di tutti,
evitando così che si accorgessero di quanto tremassi e mi sentissi a disagio.
Non era solo ansia, era paura. Le ancelle mi avevano stordita a furia di
raccontarmi che, una volta entrata nella camera nuziale, sarei stata lacerata
come la terra sotto l’aratro, in un modo umiliante e doloroso.
Mia
madre aveva smesso di andarsene in giro nuotando come un delfino giusto il
tempo necessario per assistere al matrimonio, quindi le ero un po’ meno grata
di quanto le buone regole imponessero. Prese posto sul trono, accanto a quello
di mio padre, avvolta in un tessuto azzurro ghiaccio e le si formò ai piedi una
piccola pozzanghera. Prima mi fece un discorsetto, mentre le ancelle mi stavano
già cambiando il vestito, ma non mi fu di aiuto, in quel momento. Era un
discorso svagato, ma che dire, le naiadi hanno sempre quell’aria svagata.
Ecco
che cosa mi disse:
L’acqua
non oppone resistenza. L’acqua scorre. Quando immergi una mano nell’acqua senti
solo una carezza. L’acqua non è un muro, non può fermarti. Va dove vuole andare
e niente le si può opporre. L’acqua è paziente. L’acqua che gocciola consuma
una pietra. Ricordatelo, bambina mia. Ricordati che per una metà tu sei acqua.
Se non puoi superare un ostacolo, giragli intorno. Come fa l’acqua.
Dopo
le cerimonie e i festeggiamenti, partì la solita processione verso la camera nuziale,
le solite torce, i soliti scherzi volgari, il vociare di chi era ubriaco. Il
letto era stato inghirlandato, la soglia cosparsa di fiori, il rito delle
libagioni compiuto. Davanti alla porta, c’era un guardiano il cui compito
consisteva nell’impedire che la sposa fuggisse terrorizzata e che le amiche,
sentendola gridare, irrompessero nella stanza per salvarla. La trama della
recita era prestabilita, la sposa era stata rapita e il matrimonio diventava
uno stupro autorizzato. Era la conquista di un territorio, la sopraffazione di
un avversario, un finto omicidio. Doveva scorrere il sangue.
Una
volta chiusa la porta, Odisseo mi prese per mano e mi fece sedere sul letto. «Dimentica
tutto quello che ti hanno raccontato» mi bisbigliò. «Non ti farò male, o non molto.
Ma sarebbe utile a tutti e due se tu potessi fingere. Mi hanno detto che sei intelligente.
Credi che riusciresti a mandare qualche piccolo grido? Loro saranno soddisfatti
- quelli che ascoltano dietro la porta -, ci lasceranno in pace e avremo il
tempo di fare amicizia.»
Era
uno dei suoi grandi segreti la capacità di persuasione, riusciva sempre a
convincere un altro che si trovavano entrambi di fronte a un ostacolo comune, e
che solo unendo le forze lo avrebbero superato. Attirava chiunque lo
ascoltasse, o quasi, a partecipare a un progetto o a una piccola macchinazione
da lui ideata. Era insuperabile in questo: una volta tanto, la leggenda non
mente. E aveva una voce meravigliosa, profonda e vibrante allo stesso tempo. E
così, naturalmente, acconsentii alle sue richieste.
Odisseo
non era di quegli uomini che, dopo l’amore, si voltano dall’altra parte e iniziano
a russare. Non avevo un’esperienza personale delle abitudini maschili, ma, come
ho detto, ascoltavo spesso le chiacchiere delle ancelle. No, Odisseo voleva
parlare e, poiché era un narratore straordinario, ero felice di ascoltarlo. Forse
era soprattutto questo che amava di me: mi divertivo a sentirlo raccontare. È
un talento di cui spesso non si tiene conto, nelle donne.
Avevo
notato una lunga cicatrice che gli segnava una coscia e lui me ne spiegò l’origine.
Come ho già detto, il nonno di Odisseo era Autolico, che si vantava di essere figlio
del dio Ermes. Forse era un modo per lasciare intendere che, in quanto tale,
non poteva essere altro che un vecchio e abile ladro, un imbroglione e un
bugiardo, favorito in questo dalla fortuna.
Autolico
era il padre della madre di Odisseo, Anticlea, che aveva sposato il re di
Itaca, Laerte, e quindi era diventata mia suocera. Circolava sul suo conto una
voce calunniosa si diceva, che fosse
stata sedotta da Sisifo e che fosse lui il vero padre di Odisseo – ma per me
era difficile crederlo: chi avrebbe potuto mai pensare di sedurre Anticlea?
Sarebbe stato come sedurre la prua di una nave. Ma lasciamo da parte questa
storia, per il momento.
Sisifo
era così scaltro che si diceva fosse riuscito per due volte a ingannare la
morte: la prima, quando aveva convinto il dio Tanatos a lasciarsi incatenare
per poi rifiutarsi di liberarlo; la seconda, quando era risalito dagli Inferi
dopo avere raccontato a Persefone di essere stato seppellito senza gli onori
funebri e di non dover stare, quindi, sulla riva dello Stige destinata ai
morti. Perciò, se dobbiamo credere alle voci sull’infedeltà di Anticlea, su due
rami importanti dell’albero genealogico di Odisseo comparivano i nomi di uomini
scaltri e senza scrupoli.
Qualunque
fosse la verità, il nonno Autolico - che gli aveva dato il nome – aveva invitato
Odisseo sul monte Parnaso a prendere i regali che gli erano stati promessi alla
nascita. Durante la visita, Odisseo era andato a caccia di cinghiali con i
figli di Autolico, ed era stato un cinghiale particolarmente feroce a morderlo
alla coscia, dove ora aveva la cicatrice.
Mentre
ascoltavo il racconto, ho avuto l’impressione che ci fosse qualcosa di più da sapere.
Perché il cinghiale aveva aggredito proprio Odisseo? Forse gli altri
conoscevano l’ubicazione della tana e a Odisseo era stata tesa una trappola?
Forse volevano farlo morire perché quell’imbroglione di Autolico non dovesse
dargli i regali cui aveva diritto? Forse.
Mi
piaceva crederlo. Mi piaceva credere di avere qualcosa in comune con mio
marito: entrambi avevamo corso il rischio di morire, durante la giovinezza, per
mano di un parente. Una ragione di più per restare uniti e non essere troppo
pronti a fidarci degli altri.
In
cambio della storia della cicatrice, raccontai a Odisseo che da piccola avevo
corso il rischio di annegare e che ero stata salvata dalle anatre. Lui mi
ascoltò con interesse, volle saperne di più e fu molto comprensivo - proprio
come vorremmo che fosse sempre chi ci ascolta. «Non aver paura, io non getterei
mai una fanciulla così preziosa nell’oceano» commentò alla fine. Allora
scoppiai a piangere e lui mi consolò nel modo più adatto a una
notte
di nozze.
E
così, il mattino seguente, io e Odisseo eravamo davvero amici, come lui mi aveva
promesso. Posso dirlo anche in un altro modo: mi ero accorta di provare una
vera amicizia per Odisseo - o qualcosa di più, un vero amore, una vera passione
- e lui si comportava come se ricambiasse i miei sentimenti. Non è esattamente
lo stesso.
Passato
qualche giorno, Odisseo manifestò la sua intenzione di portarmi, insieme alla mia
dote, a Itaca. Mio padre non ne fu contento - voleva che fossero rispettate le
vecchie usanze, in realtà voleva tenere in pugno noi due e la nostra recente
ricchezza. Ma noi godevamo dell’appoggio dello zio Tindaro, il cui genero era
il marito di Elena, il potente Menelao, e Icario si rassegnò.
Forse
avrete sentito dire che mio padre corse dietro al carro che ci portava via per supplicarmi
di rimanere con lui e che Odisseo mi domandò se volessi davvero andare a Itaca
o se preferissi rimanere con mio padre. Si racconta che io abbia risposto coprendomi
il viso con il velo, troppo pudica per esprimere con le parole l’amore per mio
marito e che, più tardi, sia stata eretta una statua a mia immagine quale tributo
alla virtù della modestia. Un po’ di verità c’è in questa storia, anche se
nascosi il viso con il velo perché non si vedesse che stavo ridendo. È
divertente, non si può non riconoscerlo, vedere un padre che una volta aveva
buttato sua figlia in mare, saltellare per strada dietro quella stessa figlia,
gridando: «Resta con me!».
Io
non avevo alcuna intenzione di restare. Non vedevo l’ora di andarmene dalla
corte di Sparta. Non ero stata felice e volevo iniziare una nuova vita.
traduzione di G.
Aurelio Privitera
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