dipinto di Catherine Abel
da “L'assaggiatrice” - Giuseppina Torregrossa
(…)
Il poliziotto seduto di fronte a me ha la faccia addolorata, manco fosse lui il responsabile della sparizione di Gaetano; mi porge un fazzoletto e quando non riesco a parlare perché il pianto mi rompe le parole, si ferma paziente e aspetta che riprenda spontaneamente a raccontare. Mi batte la mano sulla spalla per farmi coraggio, “Signora, non si disperi, vedrà che lo troviamo, magari torna lui da solo”.
Il neon ci stampa sulla faccia un colore giallino nonostante l’abbronzatura che nei paesi di mare dura tutto l’anno. Dalle finestre il rumore delle macchine e dei ragazzi che giocano a pallone. Ogni tanto la voce di un venditore ambulante. Tengo gli occhi bassi, un po’ per pudore, le donne del sud lo fanno automaticamente, un po’ per il mal di testa che mi appesantisce le palpebre. Gente che va e viene di continuo, la confusione che ho in testa peggiora.
Il commissario entra nella stanza all’improvviso, butta il cappello su una sedia solitaria e si lascia cadere sulla sua poltrona come se le gambe avessero ceduto di botto. Ha un paio di grossi baffi neri, una bella faccia da siciliano forte, di quelli che nella vita ne hanno viste assai e la sanno lunga, pronto a raccogliere qualunque sfida, la guardia alta, l’ironia e la tenerezza sempre a portata di mano, che in Sicilia prendersi sul serio può essere molto pericoloso. Sembra uscito dalle pagine di un romanzo: i capelli folti e scuri incorniciano il volto, come una criniera, pare un leone acquattato, le sue unghie forse sono un poco spuntate, ma capaci ancora di graffiare. Si passa la mano aperta sulla faccia a cancellare la stanchezza, fa una specie di smorfia come a dire “macari chistu!” e si gira verso di me. La testa un po’ inclinata da un lato, gli occhi dritti nei miei, una sigaretta tra le dita della mano sinistra, l’altra libera di gesticolare e di muoversi tra una penna, la tastiera del computer, il telefono cellulare che ogni tanticchia suona. Mi ascolta mentre parlo e muto cala il mento per manifestarmi la sua comprensione. È la prima volta che lo incontro così da vicino, ma in paese di lui se ne parla spesso. Si dice che abbia affrontato diversi conflitti a fuoco, gli hanno sparato tre volte e pare che abbia catturato latitanti di peso; è molto rispettato dalla gente perbene e anche da certe persone che non si possono toccare e nemmeno nominare.
Improvvisamente mi rendo conto che ho paura, sono senza soldi, senza lavoro, completamente sola. Avverto un senso di grande vuoto che non credo sia imputabile alla scomparsa di Gaetano. Da un po’ ci siamo allontanati, mi sembrava di non avere alcun interesse per lui. Mi segno come promemoria “disinteresse”, sono certa che sarà la chiave per sopravvivere nei prossimi giorni e per capire le ragioni che lo hanno allontanato da me. Sono avvilita, disorientata. Guardo di sottecchi il commissario, ha un sorriso così rassicurante. Mi piacerebbe confidarmi con lui, abbandonare la mia testa sulla sua spalla, sentire le sue braccie forti sul mio corpo e poi magari piangere. Ma devo fare attenzione, sempre sbirro è! Non vorrei che mi scappasse qualche parola di troppo.
“No, commissario, Gaetano nemici non ne ha”.
“E ha fatto qualche sgarbo? Chessò femmine, licenze edilizie, appalti?”.
“Commissario, lei lo capisce che le mogli sono le ultime a sapere quaccheccosa. Ma Gaetano è un tipo tranquillo; anche se l’ultimo incarico che gli hanno dato, capo dell’ufficio tecnico del Comune, posto caldo, tutte quelle licenze edilizie, i condoni… Ma lui non mi è mai sembrato preoccupato; è un uomo buono, non dice mai di no, e se arriva una lettera anonima lui la butta via senza neanche leggerla. Di fimmine non ne ho mai sentito l’odore. Certo negli ultimi mesi nel letto non ci veniva più neanche per dormire”.
Alzo lo sguardo e mi pento subito di quest’ultima confidenza, ma ormai le parole mi sono uscite e non posso più rincorrerle per acchiapparle; sono rotolate nella stanza e hanno preso la via delle finestre; domani i paesani, nei bar e nei circoli, a mezza voce, si racconteranno che Anciluzza, la moglie di quel cornuto dell’ingegnere capo, è sola da mesi e ha bisogno di consolazione.
“E poi, commissario…”.
“Bruno, mi chiamo Bruno”, mi dice con calma.
«Bruno, io di licenze, appalti, fogne e tubature non capisco niente. Il consiglio comunale è stato sciolto per mafia, e questa non è una notizia riservata; mio marito svolge un ruolo difficile e delicato, con tutti gli abusi edilizi che ci sono stati. Ma questo l’ho letto sul giornale, perché Gaetano non mi hai mai fatto capire niente. A lui ci hanno sempre voluto bene. Insomma, commissario…”.
“Bruno!”.
“Bruno, non lo so che è successo, ma mio marito non si trova più, e io non so se voglio che me lo trovate; perché se ha fatto sgarbi mi riportate un morto, se ha una fimmina lo devo ammazzare io, perciò, commissario…”.
“Bruno, porca la miseria!”.
“Bruno, pigliàtelo come a uno sfogo, un bisogno che ho di parlare con qualcuno; fate quello che volete, cercatelo, trovatelo, ma non mi dite più niente, tanto per me da oggi è morto comunque. E poi, commissario, ma a lei che ci interessa di essere chiamato per nome?”.
Mi alzo dalla sedia per andarmene, stanca come dopo un parto lungo e difficile, anche lui scatta in piedi e mi accompagna fino alla strada; ha uno sguardo interrogativo, curioso, chissà quali idee s’è fatto di me, della mia famiglia; forse sa pure quaccheccosa che non mi vuole dire. Ma io sono quasi sicura che Gaetano, stanco della solita vita, se n’è semplicemente andato, e mi vergogno di essere una moglie abbandonata; chessò, preferirei essere una vedova, magari una vittima delle circostanze, certamente non avrei avuto tutto questo imbarazzo.
Saluto il commissario, lui mi prende la mano umida e se la tiene tra le sue per un poco di tempo. Quella stretta calda e forte mi rassicura, sollevo lo sguardo che tengo basso per abitudine, mi hanno insegnato che i maschi non si possono taliare dritto in faccia; è come quando hai davanti un cane rabbioso che ti mostra i denti, se non vuoi essere mozzicata devi tenere gli occhi a terra e starti ferma. Lo sguardo di Bruno è un fuoco che brucia senza fare rumore, i denti bianchi, la bocca stirata in un sorriso dolce e pieno di comprensione. Un’onda calda mi sale lungo il corpo. La tensione che fino a ora mi ha tenuta in piedi si scioglie, le gambe si ammorbidiscono, uno strano languore riempie il mio stomaco. Sarà colpa della sfincia? Ringrazio comunque per l’assistenza e le attenzioni ricevute. I miei occhi incontrano quelli del commissario. Restiamo a fissarci per pochi secondi. Poi lui si porta una mano al petto e sul suo viso leggo amicizia, riservatezza, solidarietà e… No, è troppo imbarazzante, non lo voglio dire. Scappo via, confusa per tutto quello che mi sta succedendo, ma anche e soprattutto per come lui mi sta fissando.
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Il poliziotto seduto di fronte a me ha la faccia addolorata, manco fosse lui il responsabile della sparizione di Gaetano; mi porge un fazzoletto e quando non riesco a parlare perché il pianto mi rompe le parole, si ferma paziente e aspetta che riprenda spontaneamente a raccontare. Mi batte la mano sulla spalla per farmi coraggio, “Signora, non si disperi, vedrà che lo troviamo, magari torna lui da solo”.
Il neon ci stampa sulla faccia un colore giallino nonostante l’abbronzatura che nei paesi di mare dura tutto l’anno. Dalle finestre il rumore delle macchine e dei ragazzi che giocano a pallone. Ogni tanto la voce di un venditore ambulante. Tengo gli occhi bassi, un po’ per pudore, le donne del sud lo fanno automaticamente, un po’ per il mal di testa che mi appesantisce le palpebre. Gente che va e viene di continuo, la confusione che ho in testa peggiora.
Il commissario entra nella stanza all’improvviso, butta il cappello su una sedia solitaria e si lascia cadere sulla sua poltrona come se le gambe avessero ceduto di botto. Ha un paio di grossi baffi neri, una bella faccia da siciliano forte, di quelli che nella vita ne hanno viste assai e la sanno lunga, pronto a raccogliere qualunque sfida, la guardia alta, l’ironia e la tenerezza sempre a portata di mano, che in Sicilia prendersi sul serio può essere molto pericoloso. Sembra uscito dalle pagine di un romanzo: i capelli folti e scuri incorniciano il volto, come una criniera, pare un leone acquattato, le sue unghie forse sono un poco spuntate, ma capaci ancora di graffiare. Si passa la mano aperta sulla faccia a cancellare la stanchezza, fa una specie di smorfia come a dire “macari chistu!” e si gira verso di me. La testa un po’ inclinata da un lato, gli occhi dritti nei miei, una sigaretta tra le dita della mano sinistra, l’altra libera di gesticolare e di muoversi tra una penna, la tastiera del computer, il telefono cellulare che ogni tanticchia suona. Mi ascolta mentre parlo e muto cala il mento per manifestarmi la sua comprensione. È la prima volta che lo incontro così da vicino, ma in paese di lui se ne parla spesso. Si dice che abbia affrontato diversi conflitti a fuoco, gli hanno sparato tre volte e pare che abbia catturato latitanti di peso; è molto rispettato dalla gente perbene e anche da certe persone che non si possono toccare e nemmeno nominare.
Improvvisamente mi rendo conto che ho paura, sono senza soldi, senza lavoro, completamente sola. Avverto un senso di grande vuoto che non credo sia imputabile alla scomparsa di Gaetano. Da un po’ ci siamo allontanati, mi sembrava di non avere alcun interesse per lui. Mi segno come promemoria “disinteresse”, sono certa che sarà la chiave per sopravvivere nei prossimi giorni e per capire le ragioni che lo hanno allontanato da me. Sono avvilita, disorientata. Guardo di sottecchi il commissario, ha un sorriso così rassicurante. Mi piacerebbe confidarmi con lui, abbandonare la mia testa sulla sua spalla, sentire le sue braccie forti sul mio corpo e poi magari piangere. Ma devo fare attenzione, sempre sbirro è! Non vorrei che mi scappasse qualche parola di troppo.
“No, commissario, Gaetano nemici non ne ha”.
“E ha fatto qualche sgarbo? Chessò femmine, licenze edilizie, appalti?”.
“Commissario, lei lo capisce che le mogli sono le ultime a sapere quaccheccosa. Ma Gaetano è un tipo tranquillo; anche se l’ultimo incarico che gli hanno dato, capo dell’ufficio tecnico del Comune, posto caldo, tutte quelle licenze edilizie, i condoni… Ma lui non mi è mai sembrato preoccupato; è un uomo buono, non dice mai di no, e se arriva una lettera anonima lui la butta via senza neanche leggerla. Di fimmine non ne ho mai sentito l’odore. Certo negli ultimi mesi nel letto non ci veniva più neanche per dormire”.
Alzo lo sguardo e mi pento subito di quest’ultima confidenza, ma ormai le parole mi sono uscite e non posso più rincorrerle per acchiapparle; sono rotolate nella stanza e hanno preso la via delle finestre; domani i paesani, nei bar e nei circoli, a mezza voce, si racconteranno che Anciluzza, la moglie di quel cornuto dell’ingegnere capo, è sola da mesi e ha bisogno di consolazione.
“E poi, commissario…”.
“Bruno, mi chiamo Bruno”, mi dice con calma.
«Bruno, io di licenze, appalti, fogne e tubature non capisco niente. Il consiglio comunale è stato sciolto per mafia, e questa non è una notizia riservata; mio marito svolge un ruolo difficile e delicato, con tutti gli abusi edilizi che ci sono stati. Ma questo l’ho letto sul giornale, perché Gaetano non mi hai mai fatto capire niente. A lui ci hanno sempre voluto bene. Insomma, commissario…”.
“Bruno!”.
“Bruno, non lo so che è successo, ma mio marito non si trova più, e io non so se voglio che me lo trovate; perché se ha fatto sgarbi mi riportate un morto, se ha una fimmina lo devo ammazzare io, perciò, commissario…”.
“Bruno, porca la miseria!”.
“Bruno, pigliàtelo come a uno sfogo, un bisogno che ho di parlare con qualcuno; fate quello che volete, cercatelo, trovatelo, ma non mi dite più niente, tanto per me da oggi è morto comunque. E poi, commissario, ma a lei che ci interessa di essere chiamato per nome?”.
Mi alzo dalla sedia per andarmene, stanca come dopo un parto lungo e difficile, anche lui scatta in piedi e mi accompagna fino alla strada; ha uno sguardo interrogativo, curioso, chissà quali idee s’è fatto di me, della mia famiglia; forse sa pure quaccheccosa che non mi vuole dire. Ma io sono quasi sicura che Gaetano, stanco della solita vita, se n’è semplicemente andato, e mi vergogno di essere una moglie abbandonata; chessò, preferirei essere una vedova, magari una vittima delle circostanze, certamente non avrei avuto tutto questo imbarazzo.
Saluto il commissario, lui mi prende la mano umida e se la tiene tra le sue per un poco di tempo. Quella stretta calda e forte mi rassicura, sollevo lo sguardo che tengo basso per abitudine, mi hanno insegnato che i maschi non si possono taliare dritto in faccia; è come quando hai davanti un cane rabbioso che ti mostra i denti, se non vuoi essere mozzicata devi tenere gli occhi a terra e starti ferma. Lo sguardo di Bruno è un fuoco che brucia senza fare rumore, i denti bianchi, la bocca stirata in un sorriso dolce e pieno di comprensione. Un’onda calda mi sale lungo il corpo. La tensione che fino a ora mi ha tenuta in piedi si scioglie, le gambe si ammorbidiscono, uno strano languore riempie il mio stomaco. Sarà colpa della sfincia? Ringrazio comunque per l’assistenza e le attenzioni ricevute. I miei occhi incontrano quelli del commissario. Restiamo a fissarci per pochi secondi. Poi lui si porta una mano al petto e sul suo viso leggo amicizia, riservatezza, solidarietà e… No, è troppo imbarazzante, non lo voglio dire. Scappo via, confusa per tutto quello che mi sta succedendo, ma anche e soprattutto per come lui mi sta fissando.
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