“Ecco,”
mormorai, lasciandomi cadere sfinito per terra.
Nicola
dette prova di grande energia, gridò ordini ai servi, dette consigli ai monaci
che lo attorniavano, inviò qualcuno ad aprire le altre porte dell'Edificio,
altri spinse a cercar secchi e recipienti di ogni genere, indirizzò i presenti
verso le sorgenti e i depositi d'acqua della cinta. Comandò ai vaccari di usare
i muli e gli asini per trasportare degli orci... Se a dare queste disposizioni
fosse stato un uomo dotato di autorità, sarebbe stato subito ubbidito. Ma i
famigli erano usi ricevere ordini da Remigio, gli scrivani da Malachia, tutti
dall'Abate. E nessuno dei tre era ahimè presente. I monaci cercavano con gli
occhi l'Abate per cercare indicazioni e conforto, e non lo trovavano, e solo io
sapevo che egli era morto, o stava morendo in quel momento, murato in un
budello asfittico che ora si stava trasformando in un forno, in un toro di
Falaride.
Nicola
spingeva i vaccari da un lato ma qualche altro monaco, animato da buone
intenzioni, li spingeva dall'altro. Alcuni confratelli avevano evidentemente
perduto la calma, altri erano ancora intorpiditi dal sonno. Io cercavo di
spiegare, ché
ormai
avevo ripreso l'uso della parola, ma è necessario ricordare che ero pressoché
ignudo, avendo buttato la tonaca alle fiamme, e la vista del ragazzo che ero,
sanguinante, annerito nel volto dalla fuliggine, indecentemente implume nel
corpo, instupidito ora dal freddo, non doveva certo ispirare fiducia.
Finalmente
Nicola riuscì a trascinare alcuni confratelli e altra gente nella cucina, che
frattanto qualcuno aveva reso accessibile. Qualcun altro ebbe il buon senso di
portare delle torce. Trovammo il locale in gran disordine, e compresi che
Guglielmo doveva averlo messo a soqquadro per cercare acqua e recipienti adatti
al trasporto.
Vidi
in quel mentre proprio Guglielmo che sbucava dalla porta del refettorio, il
volto bruciacchiato, l'abito fumigante, in mano aveva una gran pignatta e
provai pietà per lui, povera allegoria dell'impotenza. Compresi che, se pure
era riuscito a trasportare al secondo piano una pentola d'acqua senza
rovesciarla, e se pure lo aveva fatto più d'una volta, doveva aver ottenuto ben
poco. Mi sovvenni della storia di sant'Agostino, quando vede un fanciullo che
tenta di travasare l'acqua del mare con un cucchiaio: il fanciullo era un
angelo e così faceva per prendersi gioco del santo che pretendeva penetrare i
misteri della natura divina. E come l'angelo mi parlò Guglielmo appoggiandosi
esausto allo stipite della porta: “E' impossibile, non ce la faremo mai,
neppure con tutti i monaci dell'abbazia. La biblioteca è perduta.” Diversamente
dall'angelo, Guglielmo piangeva.
Io
mi strinsi a lui, mentre egli strappava da un tavolo un panno e tentava di
ricoprirmi. Ci fermammo a osservare, ormai sconfitti, ciò che accadeva intorno
a noi.
Era
un accorrere disordinato di gente, alcuni salivano a mani nude e si
incrociavano per la scala a chiocciola con chi a mani nude, spinto da stolida
curiosità, era già salito, e ora discendeva a cercar recipienti. Altri più
accorti cercavano subito pentole e bacili, per accorgersi che in cucina non vi
era acqua bastante. All'improvviso lo stanzone fu invaso da alcuni muli che
recavano degli orci, e i vaccari che li spingevano, li scaricarono e
accennarono a trasportare l'acqua in alto. Ma non conoscevano la strada per
salire allo scriptorium, e ci volle del tempo prima che alcuni degli scrivani
li istruissero, e quando salivano si scontravano con coloro che discendevano
terrorizzati. Alcuni degli orci si infransero e sparsero l'acqua per terra,
altri furono passati lungo le scale a chiocciola da mani volonterose. Seguii il
gruppo e mi trovai nello scriptorium: dall'accesso alla biblioteca proveniva un
fumo denso, gli ultimi che avevano tentato di spingersi su per il torrione
orientale già ritornavano tossendo con gli occhi arrossati e dichiaravano che
non si poteva più penetrare in quell'inferno.
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