Francisco de Zurbarán - still life
da “Un filo d’olio” - Simonetta Agnello HornbyDopo aver versato il caffè nelle tazzine, Rosalìa lo offriva a mamma e a Giuliana; poi si dedicava a me e a Chiara. Non permetteva alla bambinaia di interferire: voleva farcelo assaporare lei stessa, il suo caffè d’u parrinu, come si doveva. Sollevava la tazzina fumante e versava un po’ di caffè sul piattino; vi soffiava sopra e mi incoraggiava a soffiarvi a mia volta, piano piano, senza farlo schizzare. A quel punto, come se fosse un cucchiaio mi porgeva il piattino inclinato col caffè, fumante ma non più bollente, e mi metteva sotto il mento un tovagliolo ricamato, ‘nsamai ci fossero state delle scolature.
Mentre succhiavo quel liquido nero, i singoli ingredienti rivelavano la loro identità. A turno, uno prendeva il sopravvento sugli altri e si distingueva, per un attimo di gloria fugace, prima di tornare a confondersi: ne prendevamo pochi sorsi, ma erano deliziosi.
Dolce, cioccolatoso e aromatico, quel caffè mai offerto a gente di fuori legava le donne della famiglia di mamma a quelle della famiglia di Rosalìa, che da sette generazioni abitava a Mosè, e celebrava l’indulgenza nel superfluo della gente dei campi, un’indulgenza rasente il peccato.
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