da “Un filo d’olio” - Simonetta Agnello Hornby
La portineria si apriva su via Atenea, la strada del passio di Agrigento, ed era luogo di sosta per tutti coloro che avevano una sia pur tenue connessione con le famiglie che abitavano nel palazzo o con i loro dipendenti. Prima ancora che Rosalìa scendesse con Filomena, suo marito Filippo aveva sparso voce dell’accaduto nel vicinato: l’intero personale della farmacia a lato, i proprietari della merceria dirimpetto e la bigliettaia del nuovissimo cinema Mignon. Ciascuno di loro aveva a sua volta ripetuto la storia in giro, ricamandoci su e attirando altri curiosi.
Chiara e io aspettavamo nella loggia della portineria, occupata in permanenza da zi’ Concetta, la scimunita del quartiere, per gentile concessione di Filippo e Rosalìa. Giuliana teneva le nostre mani strette nella sua.
Nella penombra dell’androne Paolo caricava la jeep, pensieroso; amava il quieto vivere, lui, e ogni tanto sospirava. Vicini, passanti e sfaccendati avevano preso posto ai lati e di fronte al portone. Sul marciapiede dirimpetto, i soci del Circolo del Dopolavoro, accorsi al completo, stavano appoggiati al muro come grappoli di mosche ronzanti. Tutti in attesa. Filomena spuntò in fondo all’androne per prima con il sacco in mano, seguita da Rosalìa; quando vide quella piccola folla, si fermò; Rosalìa la ammuttò verso la jeep e la fece accomodare frettolosamente accanto a Paolo, già al volante.
«Don Paolo, quando siete pronto a uscire ricordatevi di dirle: “Filomena, cummugghiativi la testa”!» gli intimò severa, a voce bassa; e poi, all’altra: «E tu ricordati di cummugghiarti col sacco!». Filomena, tesissima, annuì. Rosalìa continuò, di nuovo rivolta a Paolo:
«Quando entrate nella strada di Mosè, dopo aver superato Rubbabaruni, ricordatevi di dirle: “Filomena, scummugghiativi la testa”!».
«Signorsì!» tuonò Paolo, e si portò la mano al berretto, sull’attenti.
Quel gesto e quella risposta destabilizzarono Filomena, che aveva tenuto gli occhi risolutamente fissi davanti a sé e all’autista aveva rivolto soltanto un’occhiata di sfuggita.
La sua voce stridula fu udita da tutti, dentro e fuori: «‘Scummugghiativi’, dovete dirmi, don Paolo, chi ci trasi ‘stu ‘signorsì’?!».
Paolo non la degnò di uno sguardo. Rosalìa fece un cenno al marito e quello chiuse la portiera; Filomena, attonita, non reagì. Silenzio assoluto. I colli dei girgintani si allungavano e le loro palpebre si stringevano per individuare le forme nella penombra; persino io trattenevo il fiato.
Poi Paolo girò la chiave della messa in moto.
«Filomena, cummugghiativi la testa!».
Il muso della jeep apparve in piena luce sulla soglia del portone. Giuliana ci spinse fuori dalla loggia, senza lasciarci le mani. Liscia liscia, la jeep glissava sulle balate di via Atenea e si faceva strada tra la folla che stava attorno ridacchiando, mentre la passeggera senza volto si stringeva il sacco alla base del collo, le braccia caparbiamente incrociate sulla solida pettorina, che, compressa nell’uniforme a quadretti e strizzata da quelle braccia pelose, era in splendido rilievo.
Seguimmo la jeep con lo sguardo finché non scomparve dietro la prima curva e poi fummo costrette a risalire a casa, lasciando la portineria brulicante dei curiosi che ascoltavano quanto Rosalìa aveva da raccontare - naturalmente con tutta la cautela del caso, perché Rosalìa era sempre attenta a proteggere i padroni.
La portineria si apriva su via Atenea, la strada del passio di Agrigento, ed era luogo di sosta per tutti coloro che avevano una sia pur tenue connessione con le famiglie che abitavano nel palazzo o con i loro dipendenti. Prima ancora che Rosalìa scendesse con Filomena, suo marito Filippo aveva sparso voce dell’accaduto nel vicinato: l’intero personale della farmacia a lato, i proprietari della merceria dirimpetto e la bigliettaia del nuovissimo cinema Mignon. Ciascuno di loro aveva a sua volta ripetuto la storia in giro, ricamandoci su e attirando altri curiosi.
Chiara e io aspettavamo nella loggia della portineria, occupata in permanenza da zi’ Concetta, la scimunita del quartiere, per gentile concessione di Filippo e Rosalìa. Giuliana teneva le nostre mani strette nella sua.
Nella penombra dell’androne Paolo caricava la jeep, pensieroso; amava il quieto vivere, lui, e ogni tanto sospirava. Vicini, passanti e sfaccendati avevano preso posto ai lati e di fronte al portone. Sul marciapiede dirimpetto, i soci del Circolo del Dopolavoro, accorsi al completo, stavano appoggiati al muro come grappoli di mosche ronzanti. Tutti in attesa. Filomena spuntò in fondo all’androne per prima con il sacco in mano, seguita da Rosalìa; quando vide quella piccola folla, si fermò; Rosalìa la ammuttò verso la jeep e la fece accomodare frettolosamente accanto a Paolo, già al volante.
«Don Paolo, quando siete pronto a uscire ricordatevi di dirle: “Filomena, cummugghiativi la testa”!» gli intimò severa, a voce bassa; e poi, all’altra: «E tu ricordati di cummugghiarti col sacco!». Filomena, tesissima, annuì. Rosalìa continuò, di nuovo rivolta a Paolo:
«Quando entrate nella strada di Mosè, dopo aver superato Rubbabaruni, ricordatevi di dirle: “Filomena, scummugghiativi la testa”!».
«Signorsì!» tuonò Paolo, e si portò la mano al berretto, sull’attenti.
Quel gesto e quella risposta destabilizzarono Filomena, che aveva tenuto gli occhi risolutamente fissi davanti a sé e all’autista aveva rivolto soltanto un’occhiata di sfuggita.
La sua voce stridula fu udita da tutti, dentro e fuori: «‘Scummugghiativi’, dovete dirmi, don Paolo, chi ci trasi ‘stu ‘signorsì’?!».
Paolo non la degnò di uno sguardo. Rosalìa fece un cenno al marito e quello chiuse la portiera; Filomena, attonita, non reagì. Silenzio assoluto. I colli dei girgintani si allungavano e le loro palpebre si stringevano per individuare le forme nella penombra; persino io trattenevo il fiato.
Poi Paolo girò la chiave della messa in moto.
«Filomena, cummugghiativi la testa!».
Il muso della jeep apparve in piena luce sulla soglia del portone. Giuliana ci spinse fuori dalla loggia, senza lasciarci le mani. Liscia liscia, la jeep glissava sulle balate di via Atenea e si faceva strada tra la folla che stava attorno ridacchiando, mentre la passeggera senza volto si stringeva il sacco alla base del collo, le braccia caparbiamente incrociate sulla solida pettorina, che, compressa nell’uniforme a quadretti e strizzata da quelle braccia pelose, era in splendido rilievo.
Seguimmo la jeep con lo sguardo finché non scomparve dietro la prima curva e poi fummo costrette a risalire a casa, lasciando la portineria brulicante dei curiosi che ascoltavano quanto Rosalìa aveva da raccontare - naturalmente con tutta la cautela del caso, perché Rosalìa era sempre attenta a proteggere i padroni.
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