Concetta
spazzolò energicamente i suoi capelli fitti, li tirò con forza come se volesse
strapparli, constatò che tra le dita non le era rimasto neanche un pelo e
sorrise compiaciuta. La sua chioma, con il passare degli anni, non si era
diradata né imbiancata, aveva di che vantarsi.
La
donna raccolse le ciocche rigogliose in una coda di cavallo, l’attorcigliò fino
a farne una corda, poi la acconciò sulla sommità del capo in un grosso tuppo,
fermandolo con un’unica forcina d’osso. Si specchiò e controllò che i vestiti
fossero in ordine. Poteva essere soddisfatta: a quarant’anni passati il suo corpo piccolo era ancora sodo e
compatto, le braccia tornite, le gambe muscolose. I seni appesantiti scendevano
con grazia, non pendevano abbandonati, avevano anzi una certa consistenza e
davano l’impressione di essere pieni. Se non fosse stato per i due solchi
profondi ai lati della bocca e per i capezzoli scuriti e allungati dai numerosi
allattamenti, si sarebbe potuto dire che era la stessa di sempre.
Suo
marito, nonostante quelle sproporzionate areole color cioccolato, l’amava
ancora con l’ardore della giovinezza, ardore che lei assecondava e ricambiava. mai
che si fosse tirata indietro una volta che erano sposati, al contrario aveva
sempre assolto con entusiasmo ai suoi doveri coniugali, traendone un grande
beneficio per l’integrità del suo corpo e della sua anima. Dodici figli erano
nati, in conseguenza di quella passione che li aveva resi schiavi l’uno dell’altra.
Era solo grazie alla menopausa che aveva smesso di figliare come una giumenta.
Il suo stato di salute era comunque ottimo e lei aderiva alla vita con la
pienezza del suo essere.
L’orologio
liberty della torre municipale suonò l’ora. Concetta contò i rintocchi: “Uno,
due, tre… dodici”, era tardi! Si rimboccò le maniche della camicetta, annodò
dietro la schiena le cocche del grembiule e corse in sala da pranzo.
I
suoi figli, tutti bravi per carità, ché il destino con lei era stato davvero
generoso, erano ormai grandi e molti se n’erano andati via. Le sarebbe piaciuto
averli ancora intorno, a cominciare da Teresa, la primogenita, che ora abitava
nel vicino paese di Delia. Sospirò: quella ragazza avrebbe meritato di sposare
un uomo più importante di un semplice putiaro. Un gran lavoratore suo genero, e
non faceva mancare nulla alla famiglia, ma a Concetta erano sempre piaciuti di
più i maestri dei commercianti. E quando aveva cercato di dissuaderla. Teresa
le si era rivolta contro con una rispostaccia: “Vuoi arricchiri? Fai arti vili”.
Vita,
la seconda, a dispetto del nome che portava, aveva un gran paure dell’esistenza
e rifuggiva da ogni tentazione terrena, perciò s’era fatta monaca. “Acqua ha
nelle vene, no sangue, quella scema!” I pavidi Concetta li disprezzava, anche
quando le venivano parenti.
‘Nzula
abitava a Caltanissetta con quell’animella che chiamava marito. In compenso i suoi
due figli maschi erano bravi e intraprendenti. Quelli sarebbero riusciti di
sicuro. “E’ proprio vero che c’è una Provvidenza per tutti” pensò Concetta.
Filippina
ricamava per le Figlie di Maria e da qualche mese non tornava più a casa: aveva
deciso di prendere i voti. “Mah, non preso niente da me, ‘ste ragazze. Pallide,
solitarie e con il deserto nel ventre.”
Marianna
e Gaetana figliavano contente con i loro mariti, due pezzi di marcantonio che
davano soddisfazione solo a guardarli.
I
maschi, invece, tutto il contrario. Dei due Salvatore, il primo, mischino, era
stato sfortunato ed era morto subito; l’altro invece aveva fatto carriera come
professore. “Ah, lui!” Il viso della donna s’illuminò. “Buon sangue non mente.”
Poi sospirò: peccato che stava a Napoli, lontano da lei. “Ma è accussì bravo lu
figgi miu” aggiunse per consolarsi.
Vincenzo
e Nicola, come indomiti guerrieri, se n’erano andati in America a cercare
fortuna e ogni mese le mandavano i soldi per aiutarla.
A
conti fatti in casa gliene erano rimasti tre. Filippo, il cui avvenire le dava
qualche preoccupazione. Intelligente e bello, secondo lei, meritava un futuro
migliore di quello che il padre gli stava preparando. Portarlo in campagna a
lavorare sarebbe stato un sacrilegio. Le sue belle mani bianche non erano fatte
per la zappa, ma per la penna. Concettina, dal carattere spigoloso e dalle
forme abbondanti, completamente succube dei fratelli. E Angelino, mischinazzo,
così malaticcio, quasi un infermo, che se ne stava sempre a letto anche quando
doveva mangiare.
Guardò
le dita: compreso Turi, suo marito, doveva apparecchiare per quattro.
(…)
Nessun commento:
Posta un commento