dipinto di Kenton Nelson
da Il libro dell’inquietudine –
Fernando Pessoa
28.
L’orologio
che è là dietro, nella casa deserta, perché tutti dormono, lascia cadere
lentamente il chiaro quadruplo rintocco delle quattro del mattino. Non sono
ancora riuscito a dormire, né spero di riuscirci. Senza che nulla trattenga la
mia attenzione, da non farmi dormire, o mi pesi nel corpo, da non darmi quiete,
giaccio – il silenzio spento del mio corpo estraneo
– nell’ombra, che il vago chiarore dei lampioni in strada rende ancora
solitaria. Per il sonno che ho, non so pensare; né so sentire, per il sonno che
non riesco ad avere. Tutto, intorno a me, è nudo astratto universo, fatto di
negazioni notturne. Sono diviso tra stanchezza e inquietudine, e giungo a
toccare con la sensazione del corpo una conoscenza metafisica del mistero delle
cose. A volte mi si fa molle l’anima e allora i particolari informi della vita
quotidiana mi fluttuano sulla superficie della coscienza, e faccio
registrazioni contabili a galla della mia insonnia. Altre volte, mi desto dal pieno dormiveglia in cui ho ristagnato e immagini
vaghe, di una tonalità poetica e involontaria, fanno scorrere sulla mia
disattenzione il loro silente spettacolo. Non ho gli occhi completamente
chiusi. Mi cinge la vista indebolita una luce che giunge da lontano; sono i
lampioni pubblici accesi là sotto, sul ciglio deserto della strada. Cessare,
dormire, sostituire questa coscienza intermittente con migliori cose
melanconiche sussurrate in segreto a chi non mi conoscesse!... Cessare, passare
fluido e liquido, flusso e riflusso di un vasto mare, su coste visibili nella
notte in cui veramente si dormisse!... Cessare, essere incognito ed esterno,
movimento di rami in viali lontani, tenue cadere di foglie, avvertito più per
il suono che per la caduta, alto mare sottile con zampilli in lontananza, e
tutto l’indefinito dei parchi nella notte, perduti in grovigli continui,
labirinti naturali della tenebra!... Cessare, finalmente finire, ma in una
sopravvivenza traslata, essere la pagina di un libro, la treccia di capelli
sciolti, l’ondulare del rampicante vicino alla finestra socchiusa, i passi
senza importanza sulla ghiaia fina alla curva della strada, l’ultimo fumo alto
del paesino che si addormenta, la frusta dimenticata del cocchiere sul ciglio
mattutino del cammino… L’assurdo, la confusione, lo spegnimento – tutto fuorché
la vita… E dormo, alla mia maniera, senza
sonno né riposo, questa vita vegetativa della supposizione, e sotto le
mie palpebre inquiete si alza, come la
schiuma quieta di un mare sporco, il riflesso lontano dei lampioni
muti della
via. Dormo e non dormo. Dall’altro lato di
me, là dietro al luogo dove giaccio, il silenzio della casa raggiunge
l’infinito. Odo cadere il tempo, goccia a goccia, e nessuna goccia che cade si
sente cadere. Il cuore fisico mi opprime fisicamente la memoria, perduta nel
nulla, di tutto quanto è stato o sono stato. Sento la testa materialmente
posata sul cuscino su cui la tengo incavandolo. Il tessuto della fodera ha con
la mia pelle un contatto di gente nell’ombra. Lo stesso orecchio, sul quale mi
appoggio, mi si imprime matematicamente contro il cervello. Batto le palpebre
dalla stanchezza, e le mie ciglia emettono un suono piccolissimo, inudibile,
contro il biancore sensibile del cuscino alto. Respiro, sospirando, e la mia respirazione
avviene – non è mia. Soffro senza sentire e pensare. L’orologio della casa,
sicuramente là al fondo delle cose, suona la mezz’ora secca e nulla. Tutto è
tanto, tutto è tanto fondo, tutto è tanto nero e tanto freddo! Passo tempi,
passo silenzi; mondi senza forma mi passano accanto. Improvvisamente, come un
bambino del Mistero, un gallo canta senza
sapere della notte. Posso dormire, perché è mattina in me. E sento la mia
bocca sorridere, premendo leggermente le pieghe morbide della federa che mi copre il volto. Posso lasciarmi vivere,
posso dormire, posso ignorarmi… E, ad opera del nuovo sonno appena giunto che
mi oscura, mi affiora alla memoria il gallo che ha cantato, o per
davvero è quel gallo che sta cantando per la seconda volta.
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