Fu
come una deliziosa voglia di donna incinta. Tutt’a un tratto Teodora Vancejos
desiderò tornare al suo paese, alla sua gente, alle braccia focose del marito.
E nella sua memoria cominciarono a insinuarsi aromi di lenzuola inamidate, di
corpi allacciati, di acqua fiorita. Di nespole mature e prugne di Castiglia. I
semplici, consueti aromi della sua vita. Voleva partire subito. Magari a fine
mese. Senza che gli accordi presi con il suo capo, il dottor Manuel Amiel,
potessero intralciarla. Voleva sorprendere piacevolmente don Galaor Ucròs, suo
marito; Demetria ed Esmaracola, le sue figlie. Aveva urgenza di tornare così,
all’improvviso, senza perdere tempo e denaro in telegrammi o in conversazioni
telefoniche.
“Non
è necessario che i miei vengano a prendermi all’aeroporto. Non sono né zoppa né
monca. Posso pure prendere un taxi,” disse, mentre le sue dita lunghe e ben
modellate impastavano farina profumata di vaniglia e buccia di limone
grattugiata.
“Grave
errore.” Il dottor Amiel scosse il capo guardandola ironico. Nei suoi occhi
fulvi danzavano scintille maliziose. “E’ un’idea estremamente svantaggiosa, mia
Teodora.”
“Una
vera sorpresa.” Lei modellava le natiche grassottelle di un amorino a grandezza
naturale, senza far caso alle parole di Amiel. “Sarà un carnevale in ottobre,
perché la festa durerà fino all’alba. Felice ritorno! Immagino già i miei
vicini che vanno e vengono. Don Galaor, mio marito, con il suo più bel sorriso.
Esmaracola e Demetria vestite come principesse. E balli, musiche e canzoni.”
“Non
credo.”
Amiel,
in fondo al bancone, preparava il piatto forte di una cena speciale. Gli
ingredienti, sapientemente distribuiti, componevano una ninfa voluttuosa e
sfrontata i cui seni erano due orci ripieni di gamberi e ostriche al vino che,
senza dubbio, sarebbero stati divorati con le telline del sesso e delle
ascelle, e le patate all’aglio che formavano il corpo desiderabile e i
medaglioni di vitello e caviale che avrebbero aureolato il magnifico volto. Gli
invitati all’addio al celibato di un editore di letteratura femminista
avrebbero mangiato tutto fino all’ultima briciola.
“Perché
‘non crede’?” protestò lei. “A me piace ascoltare le mie intuizioni. E mi è
venuto così, un delizioso capriccio.”
Il
dottor Manuel Amiel, capo gentile e benevolo, si leccò i baffi con un gesto di
indubbia preoccupazione. Gesto che Teodora aveva captato anni addietro, al
confine fra Berlino Ovest e Berlino Est, quando la polizia lo aveva trovato in
possesso di un carico di mutande e preservativi profumati e commestibili, ad
alto contenuto proteico… Si salvarono per caso! Il capo del posto di frontiera
voleva conquistare una tenente schiva che odiava la biancheria intima della
zona orientale e, casualmente, soffriva di un principio di anemaia.
L’attività
commerciale del dottor Amiele non si limitava ai cibi stimolanti. Come tutti i
geni imprenditoriali scopriva continuamente nuovi filoni nella sua professione.
“Quello
che è in ordine, è in ordine,” disse lui. “ I meccanismi della routine non
vanno alterati. I mariti che arrivano un giorno prima della data stabilita
scoprono la moglie a letto con il fruttivendolo o lo smilzo barista. Invece, se
si segue un ordine…”
Lei
non gli permise di continuare. Spinse in fuori il petto guardandolo negli
occhi.
“Ho
fiducia in mio marito don Galaor Ucròs. E’ un uomo diverso e sincero. Mi ha
promesso di cambiare e così ha fatto. Non ho motivo di lagnarmi di lui.”
Amiel,
che nella sua prima giovinezza era andato a Parigi a studiare legge ed economia
– per dirigere l’azienda di famiglia – e lì aveva ceduto alle grazie di una
bella sguattera finendo per fare anch’egli il cuoco, osservò tristemente
Teodora. Era un caso disperato… stupida come solo lei sapeva essere. Anche lui
si approfittava della sua innocenza e limpidezza.
(…)
Traduzione
di Antonella Donazzan
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