dipinto di Douglas Gray
da “La sirena” – Giuseppe Tomasi di Lampedusa
(…)
Come l’animale abitudinario che sono, sedevo sempre al medesimo tavolino d’angolo accuratamente disegnato per offrire il massimo incomodo possibile al cliente. Alla mia sinistra due spettri d’ufficiali superiori che giocavano a “tric-trac” con due larve di consiglieri di corte d’appello; i dadi militari e giudiziari scivolavano atoni fuori dal bicchiere di cuoio. Alla mia destra sedeva sempre un signore di età molto avanzata, infagottato in un cappotto vecchio con colletto di astrakan spelacchiato. Leggeva senza tregua riviste straniere, fumava sigari toscani e sputava spesso; ogni tanto chiudeva e riviste, sembrava inseguire nelle volute di fumo un qualche suo ricordo. Dopo, ricominciava a leggere ed a sputare. Aveva bruttissime mani, nocchierute, rossastre con le unghie tagliate dritte e non sempre pulite, ma una volta che in una delle sue riviste s’imbatté nella fotografia di una statua greca arcaica, di quelle con gli occhi lontani dal naso e col sorriso ambiguo, mi sorpresi vedendo che i suoi deformi polpastrelli accarezzavano l’immagine con una delicatezza addirittura regale. Si accorse che lo avevo visto, grugnì di furore e ordinò un secondo espresso.
Le nostre relazioni sarebbero rimaste su quel piano di latente ostilità non fosse stato un fortunato incidente. Io portavo con me dalla redazione cinque o sei quotidiani, fra essi, una volta, il “Giornale di Sicilia”. Erano gli anni nei quali il Minculpop più infieriva, e tutti i giornali erano identici; quel numero del quotidiano palermitano era più banale che mai e non si distingueva da un giornale di Milano e di Roma se non per la imperfezione tipografica; la mia lettura di esso fu quindi breve e presto abbandonai il foglio sul tavolino. Avevo appena iniziato la contemplazione di un’altra incarnazione del Minculpop quando il mio vicino mi indirizzò la parola: “Mi scusi, signore, Le dispiacerebbe se dessi una scorsa a questo suo ‘Giornale di Sicilia’? Sono siciliano e da venti anni non mi capita di vedere un giornale delle mie parti”. La voce era quanto mai coltivata, l’accento impeccabile; gli occhi grigi del vecchio mi guardavano con profondo distacco. “Prego, faccia pure. Sa sono siciliano anch’io, se lo desidera mi è facile portare qui il giornale ogni sera.” “Grazie, non credo sia necessario; la mia è una semplice curiosità fisica. Se la Sicilia è ancora come ai tempi miei, immagino che non vi succede mai niente di buono, come da tremila anni.
Luggiucchiò il foglio, lo ripiegò, me lo restituì e s’ingolfò nella lettura di un opuscolo. Quando se ne andò voleva evidentemente svignarsela senza salutare ma io mi alzai e mi presentai; mormorò fra i denti il proprio nome che non compresi; ma non mi tese la mano; sulla soglia del caffè, però, si voltò, alzò il cappello e gridò forte: “Ciao, paesano”. Scomparve sotto i portici lasciandomi sbalordito e provocando gemiti di disapprovazione fra le ombre che giocavano.
Compii i riti magici atti a far materializzare un cameriere e gli chiesi mostrando il tavolo vuoto: “Chi era quel signore?”. “Chiel,” rispose. “ Chiel l’è ‘l senatour Rosario La Ciura.”
Il nome diceva molto anche alla mia lacunosa cultura giornalistica: era quello di uno dei cinque o sei italiani che posseggono una reputazione universale e indiscussa, quello del più illustre ellenista dei nostri tempi. Mi spiegai le corpulente riviste e l’incisione accarezzata; anche la scontrosità ed anche la raffinatezza celata.
(…)
(…)
Come l’animale abitudinario che sono, sedevo sempre al medesimo tavolino d’angolo accuratamente disegnato per offrire il massimo incomodo possibile al cliente. Alla mia sinistra due spettri d’ufficiali superiori che giocavano a “tric-trac” con due larve di consiglieri di corte d’appello; i dadi militari e giudiziari scivolavano atoni fuori dal bicchiere di cuoio. Alla mia destra sedeva sempre un signore di età molto avanzata, infagottato in un cappotto vecchio con colletto di astrakan spelacchiato. Leggeva senza tregua riviste straniere, fumava sigari toscani e sputava spesso; ogni tanto chiudeva e riviste, sembrava inseguire nelle volute di fumo un qualche suo ricordo. Dopo, ricominciava a leggere ed a sputare. Aveva bruttissime mani, nocchierute, rossastre con le unghie tagliate dritte e non sempre pulite, ma una volta che in una delle sue riviste s’imbatté nella fotografia di una statua greca arcaica, di quelle con gli occhi lontani dal naso e col sorriso ambiguo, mi sorpresi vedendo che i suoi deformi polpastrelli accarezzavano l’immagine con una delicatezza addirittura regale. Si accorse che lo avevo visto, grugnì di furore e ordinò un secondo espresso.
Le nostre relazioni sarebbero rimaste su quel piano di latente ostilità non fosse stato un fortunato incidente. Io portavo con me dalla redazione cinque o sei quotidiani, fra essi, una volta, il “Giornale di Sicilia”. Erano gli anni nei quali il Minculpop più infieriva, e tutti i giornali erano identici; quel numero del quotidiano palermitano era più banale che mai e non si distingueva da un giornale di Milano e di Roma se non per la imperfezione tipografica; la mia lettura di esso fu quindi breve e presto abbandonai il foglio sul tavolino. Avevo appena iniziato la contemplazione di un’altra incarnazione del Minculpop quando il mio vicino mi indirizzò la parola: “Mi scusi, signore, Le dispiacerebbe se dessi una scorsa a questo suo ‘Giornale di Sicilia’? Sono siciliano e da venti anni non mi capita di vedere un giornale delle mie parti”. La voce era quanto mai coltivata, l’accento impeccabile; gli occhi grigi del vecchio mi guardavano con profondo distacco. “Prego, faccia pure. Sa sono siciliano anch’io, se lo desidera mi è facile portare qui il giornale ogni sera.” “Grazie, non credo sia necessario; la mia è una semplice curiosità fisica. Se la Sicilia è ancora come ai tempi miei, immagino che non vi succede mai niente di buono, come da tremila anni.
Luggiucchiò il foglio, lo ripiegò, me lo restituì e s’ingolfò nella lettura di un opuscolo. Quando se ne andò voleva evidentemente svignarsela senza salutare ma io mi alzai e mi presentai; mormorò fra i denti il proprio nome che non compresi; ma non mi tese la mano; sulla soglia del caffè, però, si voltò, alzò il cappello e gridò forte: “Ciao, paesano”. Scomparve sotto i portici lasciandomi sbalordito e provocando gemiti di disapprovazione fra le ombre che giocavano.
Compii i riti magici atti a far materializzare un cameriere e gli chiesi mostrando il tavolo vuoto: “Chi era quel signore?”. “Chiel,” rispose. “ Chiel l’è ‘l senatour Rosario La Ciura.”
Il nome diceva molto anche alla mia lacunosa cultura giornalistica: era quello di uno dei cinque o sei italiani che posseggono una reputazione universale e indiscussa, quello del più illustre ellenista dei nostri tempi. Mi spiegai le corpulente riviste e l’incisione accarezzata; anche la scontrosità ed anche la raffinatezza celata.
(…)
Nessun commento:
Posta un commento