opera din Alfredo Protti
148. Sdegno amoroso - Tommaso CampanellaQueste d'ira e di sdegno accese carte,
che d'un ingrato cuor son arme ultrici,
legga chi fugge Amore, e vegga in parte
i frutti suoi, l'infedeltà d'amici,
com'io per breve amor diffuse e sparte
lagrime ho tante, amare ed infelici.
Or, se ferimmi Amor, odio mi sana,
ché d'un contrario l'altro s'allontana.
Di te vorrei lagnarmi, ingiusto Amore,
poiché fusti principio al pianger mio;
teco le mie querele e 'l mio furore
con giusto ardir di vendicar desio;
a te del mio penar pena maggiore
conviensi; e 'l vuole e la natura e Dio,
ché, se fusti cagion ch'io amassi altrui,
or tu devi soffrir gl'inganni sui.
Tu con l'aurato strale al manco lato
mi facesti, crudel, profonda piaga;
tu ne traesti il cor vinto e legato,
dandolo in preda a dispettosa maga,
che cela il finto amore e simolato
sotto l'imagin sua, che mille immaga:
immaga mille, e mille amori agogna;
a nullo osserva fede, a sé vergogna.
Dunque doveasi un tal ricetto a tanta
grandezza del mio cuor, ch'ama in eterno?
Empio! tu 'l sai con quant'onor, con quanta
fede osservai le leggi e 'l tuo governo:
governo iniquo, ov'il velen s'ammanta
tra puoco dolce, ov'è sol frode e scherno!
ingiuste leggi, in cui s'è terminato
che si debba ferir un disarmato!
Sol mi debbo lodar che pur talvolta
ivi pervenni ove tu scherzi e ridi.
Ma che miracol fu, se molta e molta
turba nel luogo stesso ergi ed affidi?
e qual obbligo fia, se rotta e sciolta
la fé dell'empio cor subito vidi,
e quinci e quindi i fraudolenti amori
divisi e sparsi in velenati cuori?
A te dunque mi volgo, ingorda arpia;
di te giusta cagion ho di dolermi.
Misera! or chi ad amar si mosse pria?
Pria tu, che l'amor tuo festi vedermi
e con lettere e segni; il cielo udìa
d'Amore i colpi e i fragili tuoi schermi,
e con tanti sospir, con tai parole,
che fatto avriano in giù calar il sole.
Ahi, quante volte le rilessi il giorno
e quante volte accesero i desiri!
Le baciava talor, talor intorno
l'irrigava di pianto, e co' suspiri
poi l'asciugava. Allor palese fôrno
le mie pene amorose, i miei martìri.
Esse ben sanno il fido petto mio,
esse l'instabiltà del tuo desio.
Non ti ricordi in quanti effetti e modi
io t'ho fatto palese il riamarti?
Vuoi che racconti forse, o pur che lodi
che oprato ho quel c'ho più potuto oprarti?
Or che cagion, che disciogliessi i nodi,
t'ho dato io mai? di che potrai lagnarti,
se non c'hai puoco amato e falsamente,
avendo fisso in mille cuor la mente?
Fra mille un solo è quel ch'in tutto ha spento
quel puoco amor che simolando andavi.
Ahi! misera infedele, hai ardimento
di rivolger più gli occhi ove miravi?
Dispergi, ingrata, ogni tua speme al vento,
ché non terrai più del mio cor le chiavi:
ama gli amanti tuoi, ama quell'uno,
che mostra amarti più che amò ciascuno.
Io più non amo; anzi, d'amore invece,
odio quanto più posso, e fuggo e schivo.
Sieguati pur chi vuole; a me non lece
seguirti più: più sarò lieto e vivo,
vivo marmo sarò; ché tal mi fece
il tuo tepido amor e semivivo.
Così liquido umor suol congelarsi
in duro ghiaccio, e appena può disfarsi.
Quest'ultime parole e quest'estreme
note sian fine a quel duello antico;
e, se fia ch'io per altri sudi o treme,
cercarò fede all'amoroso intrico.
Bastami sol, per or, che non mi preme
cura d'Amor, ma me di me nutrico.
E veggio ben c'ho navigato invano;
amai sol ombre e fui dal ver lontano.
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