dipinto di Kenton Nelson
da “Gli amori difficili”. L'avventura di un viaggiatore, (1957) – Italo Calvino
(…)
Si buttò a sedere e diede un sospiro di sollievo. Aveva imparato che il trovarsi in un ambiente in cui ogni cosa non poteva che essere al suo posto, uguale a sempre, anonima, senza possibili sorprese, gli infondeva calma, coscienza di se stesso, libertà di pensieri. Tutta la sua vita era avventata nel disordine, ma ora trovava un perfetto equilibrio tra spinta interna ed impassibile neutralità delle cose.
Durava un attimo (se era in seconda; un minuto, se era in prima) e subito l'assaliva una stretta: lo squallore dello scompartimento, il velluto qua e là logoro, il sospetto di polvere in giro, la smunta consistenza delle tende nei vagoni di vecchio tipo, gli comunicavano un senso di tristezza, il disagio al pensiero di dormire vestito, su un giaciglio non suo, senza possibile confidenza con quello che toccava. Ma subito si ricordava del perché era in viaggio, e si risentiva preso da quel ritmo naturale, come di mare o di vento, quell'impeto festoso e leggero; bastava cercarlo dentro di sé, chiudendo gli occhi, o stringendo in mano il gettone del telefono, e quell'impressione di squallore era sconfitta, c'era lui solo di fronte all'avventura del suo viaggio.
Ma qualcosa gli mancava ancora: che cos'era? Ecco: sentì la voce di basso che s'avvicinava sotto lapensilina: - Cuscini! - e già lui s'era alzato, abbassava il vetro, avanzava la mano con le due monete da cento, gridava: - Uno qui! - Era l'uomo dei cuscini a dare ogni volta il via al suo viaggio. Passava sotto i finestrini un minuto prima della partenza, spingendo davanti a sé il trespolo a rotelle coi guanciali appesi: era un vecchio d'alta statura, magro, coi baffi bianchi, e grandi mani, dalle lunghe e grosse dita, mani che danno fiducia. Vestiva tutto in nero: berretto militare, divisa, cappotto, sciarpa stretta attorno al collo. Un tipo del tempo di re Umberto; qualcosa come un vecchio colonnello, o
solamente un ligio maresciallo d'alloggio. Oppure un postino, un vecchio procaccia: con quelle grandi mani, quando porgeva a Federico lo smilzo guanciale, reggendolo con la punta delle dita, sembrava consegnasse una lettera, o volesse imbucarla al finestrino. Il guanciale adesso era tra le braccia di Federico, quadrato, piatto, proprio come una busta, e per di più carico di timbri, era la lettera quotidiana a Cinzia che partiva anche stasera, e al posto della pagina di scrittura ansiosa era Federico in persona a prendere la via invisibile della posta notturna, per mano del vecchio procaccia invernale, ultima incarnazione del Settentrione razionale e disciplinato prima d'inoltrarsi tra le malpadroneggiabili passioni del MedioSud. Ma pur sempre, soprattutto, era un guanciale: cioè un oggetto morbido (ancorché schiacciato e compatto) e candido (sebbene costellato dai timbri) del bucato d'autoclave. Conteneva in sé, come un concetto è racchiuso in un segno ideografico, l'idea del letto, del crogiolamento, della intimità, e Federico già pregustava l'isola di freschezza che sarebbe stato per lui, nella notte, tra quegli infidi e ispidi velluti. Non solo, ma quell'esiguo rettangolo di agio prefigurava altri agi, altre intimità, altre dolcezze, per godere i quali egli si stava mettendo in viaggio; anzi, già il fatto di mettersi in viaggio, già il noleggio del guanciale era un goderli, un entrare nella dimensione in cui regnava Cinzia, nel cerchio racchiuso dalle sue morbide braccia.
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Si buttò a sedere e diede un sospiro di sollievo. Aveva imparato che il trovarsi in un ambiente in cui ogni cosa non poteva che essere al suo posto, uguale a sempre, anonima, senza possibili sorprese, gli infondeva calma, coscienza di se stesso, libertà di pensieri. Tutta la sua vita era avventata nel disordine, ma ora trovava un perfetto equilibrio tra spinta interna ed impassibile neutralità delle cose.
Durava un attimo (se era in seconda; un minuto, se era in prima) e subito l'assaliva una stretta: lo squallore dello scompartimento, il velluto qua e là logoro, il sospetto di polvere in giro, la smunta consistenza delle tende nei vagoni di vecchio tipo, gli comunicavano un senso di tristezza, il disagio al pensiero di dormire vestito, su un giaciglio non suo, senza possibile confidenza con quello che toccava. Ma subito si ricordava del perché era in viaggio, e si risentiva preso da quel ritmo naturale, come di mare o di vento, quell'impeto festoso e leggero; bastava cercarlo dentro di sé, chiudendo gli occhi, o stringendo in mano il gettone del telefono, e quell'impressione di squallore era sconfitta, c'era lui solo di fronte all'avventura del suo viaggio.
Ma qualcosa gli mancava ancora: che cos'era? Ecco: sentì la voce di basso che s'avvicinava sotto lapensilina: - Cuscini! - e già lui s'era alzato, abbassava il vetro, avanzava la mano con le due monete da cento, gridava: - Uno qui! - Era l'uomo dei cuscini a dare ogni volta il via al suo viaggio. Passava sotto i finestrini un minuto prima della partenza, spingendo davanti a sé il trespolo a rotelle coi guanciali appesi: era un vecchio d'alta statura, magro, coi baffi bianchi, e grandi mani, dalle lunghe e grosse dita, mani che danno fiducia. Vestiva tutto in nero: berretto militare, divisa, cappotto, sciarpa stretta attorno al collo. Un tipo del tempo di re Umberto; qualcosa come un vecchio colonnello, o
solamente un ligio maresciallo d'alloggio. Oppure un postino, un vecchio procaccia: con quelle grandi mani, quando porgeva a Federico lo smilzo guanciale, reggendolo con la punta delle dita, sembrava consegnasse una lettera, o volesse imbucarla al finestrino. Il guanciale adesso era tra le braccia di Federico, quadrato, piatto, proprio come una busta, e per di più carico di timbri, era la lettera quotidiana a Cinzia che partiva anche stasera, e al posto della pagina di scrittura ansiosa era Federico in persona a prendere la via invisibile della posta notturna, per mano del vecchio procaccia invernale, ultima incarnazione del Settentrione razionale e disciplinato prima d'inoltrarsi tra le malpadroneggiabili passioni del MedioSud. Ma pur sempre, soprattutto, era un guanciale: cioè un oggetto morbido (ancorché schiacciato e compatto) e candido (sebbene costellato dai timbri) del bucato d'autoclave. Conteneva in sé, come un concetto è racchiuso in un segno ideografico, l'idea del letto, del crogiolamento, della intimità, e Federico già pregustava l'isola di freschezza che sarebbe stato per lui, nella notte, tra quegli infidi e ispidi velluti. Non solo, ma quell'esiguo rettangolo di agio prefigurava altri agi, altre intimità, altre dolcezze, per godere i quali egli si stava mettendo in viaggio; anzi, già il fatto di mettersi in viaggio, già il noleggio del guanciale era un goderli, un entrare nella dimensione in cui regnava Cinzia, nel cerchio racchiuso dalle sue morbide braccia.
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