23 novembre 2018

da “Gli amori difficili”. L'avventura di un viaggiatore, (1957) – Italo Calvino

Pippo Rizzo - Treno in corsa, 1929
da “Gli amori difficili”. L'avventura di un viaggiatore, (1957) – Italo Calvino
(…)
Il brusco irrompere del controllore (apriva la portiera di scatto, e con mano sicura sbottonava in un sol gesto le due tendine mentre alzava l'altra mano ad accendere la luce) era previsto. Federico però preferiva non aspettarlo: se arrivava prima che lui avesse preso sonno, bene; se il primo sonno era già cominciato, un'apparizione abituale e anonima come quella del controllore non lo interrompeva che per pochi secondi, così come chi dorme in campagna si ridesta allo stridere d'un uccello notturno ma poi si volta sull'altro fianco ed è come se non si fosse svegliato affatto. Federico teneva pronto il biglietto nel taschino e lo porgeva senza alzarsi, quasi senza aprire gli occhi, restando a mano aperta finché non lo risentiva tra le dita; lo rintascava e avrebbe ripreso subito a dormire, non gli fosse toccato di compiere un'operazione che rendeva vano tutto il suo sforzo d'immobilità di prima: cioè alzarsi a riabbottonare le tendine. Stavolta era ancora sveglio, e il controllo durò un po' più del solito, perché il rappresentante, colto in mezzo al sonno, tardò a raccapezzarsi, a trovare il biglietto. «Non ha la mia prontezza di riflessi», pensò Federico, e ne approfittò per soverchiarlo con nuove varianti della sua canzone immaginaria. «Je voyage l'amour...», modulò. L'idea di usare transitivamente il verbo voyager gli diede il senso di pienezza che danno le intuizioni poetiche anche minime, e la soddisfazione d'aver finalmente trovato un'espressione adeguata al suo stato d'animo. «Je voyage amour! Je voyage liberté! Jour et nuit je cours... par les cheminsdefer...»
Lo scompartimento era tornato al buio. Il treno masticava la sua strada invisibile. Poteva Federico chiedere di più alla vita? Da tale beatitudine al sonno, il passo è breve. Federico s'addormentò come sprofondasse in un pozzo di piume. Cinque o sei minuti, soltanto: poi si svegliò. Aveva caldo, era tutto sudato. I vagoni erano già riscaldati, essendo autunno inoltrato, ma egli, nel ricordo del freddo provato all'ultimo suo viaggio, s'era voluto coricare col soprabito. S'alzò, se lo tolse, se lo buttò addosso come una coperta, lasciando libere le spalle e il petto, ma sempre cercando di farlo cadere in modo che non facesse brutte pieghe. Si rivoltò sull'altro fianco. Il sudore aveva risvegliato nel suo corpo un serpeggiare di pruriti. Si sbottonò la camicia, si grattò il petto, si grattò una gamba. Lo stato di costrizione in cui ora sentiva il suo corpo, gli richiamava pensieri di libertà fisica, di mare, di nudità, di nuoto, di corse, e tutto questo culminava nell'abbraccio di Cinzia, somma di tutto il bene dell'esistere. E lì, nel dormiveglia, non distingueva neanche più i disagi presenti dal bene vagheggiato, aveva tutto a un tempo, si crogiolava in un malessere che presupponeva e quasi conteneva in sé ogni possibile benessere. Si riaddormentò.
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