da “Il gatto che aggiustava i cuori” – RachelWells
Imparavo molto in fretta che il mondo è ostile e pericoloso, lontano un milione di miglia da casa mia, da Agnes e Margaret. Cominciavo a chiedermi se, dopotutto, non sarebbe stato più sicuro andare al gattile.
Comunque non c’era modo di tornare sui miei passi. Al momento non sapevo dov’ero. Quando mi ero messo in cammino avevo preso una direzione a caso, inconsapevole di quello che sarebbe successo, ma pieno di speranze. Pensavo che avrei dovuto viaggiare un po’ ma sotto sotto credevo che una famiglia gentile, forse una bambina dolce, mi avrebbe trovato e portato nella mia nuova casa. È l’immagine che tenevo in mente affrontando i terrori quotidiani, correndo per salvarmi la vita e spesso vagando affamato.
Al momento ero disorientato e stanco. L’adrenalina che mi aveva tenuto in movimento mi stava abbandonando, sostituita da una pesantezza alle zampe. Mi sono fatto strada fino a un vicolo sul retro, dove, se fossi saltato sulla recinzione tenendomi in equilibrio come una ballerina, avrei potuto procedere e guardare in basso da un’altezza sufficiente a farmi sentire al sicuro. Per riuscirci ho attinto alle mie riserve di energia. Ho individuato un giardino con una grande scodella d’acqua su un palo; Margaret ne aveva una nel suo giardino per far bere gli uccelli. Sono sceso con un salto e mi ci sono arrampicato, così assetato che avrei scalato la montagna più alta. Ho bevuto avidamente, riconoscente per l’immediato sollievo che mi ha dato. Ho allontanato a viva forza qualche uccello: adesso quell’acqua era mia. Dopo averla quasi vuotata, sono tornato alla recinzione e mi sono allontanato ancora di più dalla mia vecchia vita.
Fortunatamente ho trascorso una notte senza incidenti. Ho incontrato altri gatti ma mi hanno ignorato, troppo coinvolti nelle loro occupazioni feline e nell’accoppiamento per prestarmi attenzione. Gran parte di quello che sapevo sugli altri gatti l’avevo imparato da Agnes, che si muoveva a stento quando l’ho conosciuta, e dai gatti della nostra strada, che di solito erano amichevoli, soprattutto Mavis, che mi aveva dimostrato tanta gentilezza. Avrei voluto avvicinarli per chiedere aiuto, ma parevano troppo occupati e dopo l’episodio del gatto nero ero spaventato, così ho continuato a trotterellare con circospezione.
Il mattino dopo, ho avuto la sensazione di aver fatto un bel pezzo di strada. E comunque avevo di nuovo fame, così mi sono deciso a sfoderare tutto il mio fascino nella speranza che qualche gatto benevolo mi aiutasse per il pasto. Mi sono imbattuto in un gatto che si stava crogiolando al sole fuori da una casa con una lucida porta rossa. Mi sono avvicinato titubante e ho fatto le fusa.
«Oh cielo», ha detto il gatto che, a dire il vero, era una grossa soriana. «Hai un aspetto spaventoso.» Stavo per offendermi ma poi mi è venuto in mente che, da quando avevo lasciato la casa di Margaret, non mi ero lisciato come si deve, dal momento che ero stato impegnato più che altro a sopravvivere e a tenermi fuori dai guai.
«Sono senza casa e ho fame», ho miagolato.
«Vieni, ti darò un po’ della mia colazione», si è offerta. «Poi, però, te ne devi andare. La mia padrona torna tra poco e non vuole trovare gatti randagi in casa.» È stato un bel colpo rendermi conto che ero un randagio. Non avevo né casa né famiglia né protezione. Ero uno di quei gatti sfortunati che devono badare a sé stessi, che vivono nella paura e sono sempre affamati e stanchi; che non si sentono mai veramente in forma e non hanno nemmeno alla lontana un bell’aspetto. Adesso ero entrato a far parte delle loro file ed era una sensazione orribile.
Ho mangiato e bevuto con riconoscenza e poi me ne sono andato per la mia strada, ringraziando e dicendo addio alla gatta benevola. Non sapevo neppure il suo nome.
Traduzione di Elisabetta Valdrè
Imparavo molto in fretta che il mondo è ostile e pericoloso, lontano un milione di miglia da casa mia, da Agnes e Margaret. Cominciavo a chiedermi se, dopotutto, non sarebbe stato più sicuro andare al gattile.
Comunque non c’era modo di tornare sui miei passi. Al momento non sapevo dov’ero. Quando mi ero messo in cammino avevo preso una direzione a caso, inconsapevole di quello che sarebbe successo, ma pieno di speranze. Pensavo che avrei dovuto viaggiare un po’ ma sotto sotto credevo che una famiglia gentile, forse una bambina dolce, mi avrebbe trovato e portato nella mia nuova casa. È l’immagine che tenevo in mente affrontando i terrori quotidiani, correndo per salvarmi la vita e spesso vagando affamato.
Al momento ero disorientato e stanco. L’adrenalina che mi aveva tenuto in movimento mi stava abbandonando, sostituita da una pesantezza alle zampe. Mi sono fatto strada fino a un vicolo sul retro, dove, se fossi saltato sulla recinzione tenendomi in equilibrio come una ballerina, avrei potuto procedere e guardare in basso da un’altezza sufficiente a farmi sentire al sicuro. Per riuscirci ho attinto alle mie riserve di energia. Ho individuato un giardino con una grande scodella d’acqua su un palo; Margaret ne aveva una nel suo giardino per far bere gli uccelli. Sono sceso con un salto e mi ci sono arrampicato, così assetato che avrei scalato la montagna più alta. Ho bevuto avidamente, riconoscente per l’immediato sollievo che mi ha dato. Ho allontanato a viva forza qualche uccello: adesso quell’acqua era mia. Dopo averla quasi vuotata, sono tornato alla recinzione e mi sono allontanato ancora di più dalla mia vecchia vita.
Fortunatamente ho trascorso una notte senza incidenti. Ho incontrato altri gatti ma mi hanno ignorato, troppo coinvolti nelle loro occupazioni feline e nell’accoppiamento per prestarmi attenzione. Gran parte di quello che sapevo sugli altri gatti l’avevo imparato da Agnes, che si muoveva a stento quando l’ho conosciuta, e dai gatti della nostra strada, che di solito erano amichevoli, soprattutto Mavis, che mi aveva dimostrato tanta gentilezza. Avrei voluto avvicinarli per chiedere aiuto, ma parevano troppo occupati e dopo l’episodio del gatto nero ero spaventato, così ho continuato a trotterellare con circospezione.
Il mattino dopo, ho avuto la sensazione di aver fatto un bel pezzo di strada. E comunque avevo di nuovo fame, così mi sono deciso a sfoderare tutto il mio fascino nella speranza che qualche gatto benevolo mi aiutasse per il pasto. Mi sono imbattuto in un gatto che si stava crogiolando al sole fuori da una casa con una lucida porta rossa. Mi sono avvicinato titubante e ho fatto le fusa.
«Oh cielo», ha detto il gatto che, a dire il vero, era una grossa soriana. «Hai un aspetto spaventoso.» Stavo per offendermi ma poi mi è venuto in mente che, da quando avevo lasciato la casa di Margaret, non mi ero lisciato come si deve, dal momento che ero stato impegnato più che altro a sopravvivere e a tenermi fuori dai guai.
«Sono senza casa e ho fame», ho miagolato.
«Vieni, ti darò un po’ della mia colazione», si è offerta. «Poi, però, te ne devi andare. La mia padrona torna tra poco e non vuole trovare gatti randagi in casa.» È stato un bel colpo rendermi conto che ero un randagio. Non avevo né casa né famiglia né protezione. Ero uno di quei gatti sfortunati che devono badare a sé stessi, che vivono nella paura e sono sempre affamati e stanchi; che non si sentono mai veramente in forma e non hanno nemmeno alla lontana un bell’aspetto. Adesso ero entrato a far parte delle loro file ed era una sensazione orribile.
Ho mangiato e bevuto con riconoscenza e poi me ne sono andato per la mia strada, ringraziando e dicendo addio alla gatta benevola. Non sapevo neppure il suo nome.
Traduzione di Elisabetta Valdrè
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